
Triangulum
(2009 o forse 2008) ha tutta l’aria di essere un sogno ad occhi
aperti in una qualche città mediorientale, certo liquidare la
faccenda in maniera così sbrigativa è troppo facile, però quando
nel cinema vengono annientate le coordinate del comune vedere
ricorrere ad una chiave di lettura onirica è più un rifugio che una
libera interpretazione. Di sicuro, comunque, non vi è stupore alcuno
perché se si è ammiratori della coppia Gustavo Jahn - Melissa
Dullius questo cortometraggio rientra appieno nel loro modo di fare
arte. Solo che, forse per via di trovarsi agli albori della carriera,
Triangulum, se rapportato
alle altre opere del duo, risulta il più impenetrabile. Lungi da me
considerarlo un difetto, al massimo l’estesa cripticità può
essere uno stimolo che non è affatto detto debba venir
obbligatoriamente decrittato. Sia come sia riporto quanto visto sullo
schermo: Gustavo, Melissa e Michel (sì, un triangolo umano) in una
città orientaleggiante (è Il Cairo), succedono cose, parlano
persone in inglese, portoghese, arabo, subiamo l’effetto stordente
del melting pot di voci e di volti, poi il trio, come in una fiaba di
Shahrazād, sale su un tappeto per ritrovarsi separato, ognuno per sé
alle prese con il mondo circostante, infine si ricongiungono in un
commento off circolare: “ricominciare, per mille volte ancora,
ricominciare”.
Da
tradizione la gabbia espositiva è quadrata, l’aspetto della
pellicola è “rovinato”, qui esclusivamente negli stralci in
bianco e nero, perché sì, Triangulum
procede per balzi cromatici incrementando il disorientamento, un
campo può essere a colori, l’annesso controcampo il suo opposto.
In un montaggio bello serrato spesso è complicato identificare i
soggetti che si affacciano nella diegesi, chi sta parlando? E che sta
dicendo? Meglio non fondersi inutilmente il cervello dietro ai
dettagli, piuttosto vale la pena allargare lo sguardo per cogliere la
complessità del film, del resto i due registi sono i soliti
alchimisti che aprono la scatola-cinema ad immissioni di altre
discipline, senza dimenticare (e come sarebbe possibile farlo?) il
rifarsi ad un linguaggio visivo che sembra disseminare simboli (la
piccola piramide luminosa; la piramide-tenda nel deserto) e al
contempo attingere al bacino della realtà, se non della cronaca (la
donna al tavolino che parla dell’Iraq; Melissa che distribuisce dei
volantini alle passanti). Pretenzioso? Presuntuoso? Altezzoso? Non
escludo nulla. Ma esattamente come per In the Traveler’s Heart (2013), alla fine, si
sente che il ribollio
artistico di Jahn & Dullius non è un vuoto atto d’onanismo.
Nessun commento:
Posta un commento