martedì 2 maggio 2023

Extinction

Kolja, il ragazzo protagonista di Extinção (2018), ha un passaporto moldavo ma è nato in un lembo di terra al confine con l’Ucraina che dal settembre 1990 in poi si è autoproclamato regione indipendente col nome di Transnistria, uno stato “fantasma” non riconosciuto dall’ONU che strizza l’occhio alla Russia di Putin. La regista portoghese Salomé Lamas ci porta con sé in un road-movie che road-movie non è, al pari del contenitore documentaristico inquinato da lievi tracce di finzione, tanto che, ponendo in parallelo Kolja col film stesso, il sottotitolo potrebbe essere “alla ricerca di un’identità”, che in verità è palese, sia sul fronte narrativo che su quello categoriale, ma il tocco della Lamas rende le cose più torbide, e quindi più inafferrabili, di quanto lo siano nel concreto. Molto bene, qui bisogna sedersi e ragionare con calma: Extinction è un’opera che si conficca nell’attualità anche se non dà a vederlo ed anche se tale attualità è abbastanza lontana da noi, eppure il resoconto che ne esce fuori suggerisce di una geografia post-sovietica in balia di correnti e tumulti sempre lì lì per esplodere, ed è interessante l’apparato formale utilizzato dall’autrice per farci pervenire queste informazioni perché coniuga approcci opposti, da una parte abbiamo un’evidente attenzione artistica nell’esporci sequenze dal valido impatto visivo mentre dall’altra si asciuga di ogni prospettiva estetica per mettere sul piatto la problematicità della questione attraverso registrazioni rubate nelle frontiere delle diverse nazioni. Ciò che emerge è un’eredità politica ingombrante perché i monumenti eretti dall’Unione Sovietica restano colossi incombenti sul presente (identiche sensazioni provate per Last and First Men [2020] di Jóhannsson) e perché, inoltre, tale presente sembra occluso da una cappa securitaria (i video nell’albergo) pericolosamente simile all’epoca socialista (Ilya Khrzhanovskiy insegna).

Che poi il valore di Extinction non si ferma soltanto ad esporre in maniera arty la confusione vigente attorno ad una striscia tra i monti che non vuole appartenere alla Moldavia, la Lamas coglie l’occasione per pensare e ripensare a cosa è la Russia oggi e cosa è stata l’URRS in passato. Per farlo si serve di cantastorie interni, di soggetti che compaiono sullo schermo in una veste quasi surreale (si veda il barbone all’inizio), che compiono delle significative digressioni storiche (ho apprezzato molto la metafora ferroviaria), e al contempo vediamo Kolja vagare in luoghi più astratti rispetto al filo conduttore da reportage ma inequivocabilmente, indubitabilmente sovietici fino al midollo (dopo Homo Sapiens [2016] eccoci nuovamente a Buzludža, un enorme relitto di cemento che la Lamas illumina con l’effimero fulgore dei razzi). L’urgenza a cui credo che la regista abbia voluto più di qualunque altro aspetto dare voce si concentra sulla situazione geopolitica dei nostri vicini russi, osservando la cartina si nota che nel mondo la maggioranza degli stati non internazionalmente accettati sono proprio localizzati nei territori ai confini dell’ex URRS, oltre alla Transnistria c’è l’Abcasia, l’Ossezia del Sud, l’Artsakh e le due repubbliche di Doneck e Lungask, senza ovviamente dimenticare la complessa realtà della Crimea. Impariamo allora che tutti questi posti dove si contrappongono gruppi separatisti ad istituzioni che invece rivendicano come propria quella o quell’altra regione, sono delle polveriere esplose o in procinto di esplodere, e che la scacchiera politica è nelle mani di un solo Paese: la Russia. Ora, non sto nemmeno a rimarcare che un film di nemmeno un’ora e mezza è impossibilitato a risultare esaustivo sull’argomento, però aver avuto la possibilità di sfiorare il suddetto ginepraio per mezzo di un ricercato studio sulla forma è appagante, con enigmatica e affascinante ciliegina nel finale. Brava Salomé, dopo Terra de ninguém (2012) un’altra prova di livello.

P.S.: ho scritto questo commento prima dello scoppio della guerra in Ucraina.

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