
Potremmo
considerare La supplication
(2016) del lussemburghese Pol Cruchten come la risposta arty alla
serie televisiva Chernobyl
(2019)? Be’, perché no? Le due opere viaggiano su traiettorie
antitetiche però condividono la medesima meta, ovvero raccontarci
quel che è stato e quello che è rimasto del disastro di Černobyl’.
Cruchten, a differenza dei colleghi di HBO, trae spunto da una base
letteraria, il film è infatti un adattamento del libro Preghiera
per Černobyl’. Cronaca del futuro
(E/O; 2002) scritto dal premio Nobel ’15 Svjatlana Aleksievič, e
si avvale di un procedimento che mette in relazione i luoghi
sopravvissuti all’esplosione così come sono ora con le riflessioni
dei superstiti in commento off. L’aspetto peculiare dell’opera è
che se gli ambienti sono “originali” (non è specificato ma
immagino che saremo a Pryp"jat’ o zone limitrofe), i testimoni
sono invece attori, se non proprio tutti, sicuramente una buona
parte. Questa scelta, unita all’utilizzo del francese per esporre i
pensieri sullo schermo, crea un discreto divario percettivo durante
la visione, mi spiego: sull’argomento abbiamo già visto due
lavori: Pripyat
(1999) e The Babushkas of Chernobyl (2015),
un dittico dall’essenza esclusivamente documentaristica, cosa che
non si può altrettanto dire di Voices
from Chernobyl,
il motivo è dato da un congiungersi di strani rivoli artificiali che
solcano l’impianto illustrativo, il susseguirsi di uomini, donne e
bambini che riversano la loro storia ha una cifra quasi teatrale che
può essere positiva o negativa a seconda di come si vuole intendere
il cinema. Per me, che amo l’originarietà e la verità
dell’oggetto ripreso, un intervento massiccio del regista non mi ha
fatto venire la pelle d’oca, sebbene sia doveroso riconoscere
l’alto lignaggio formale che costituisce il film.
La
questione non mi è affatto nuova e si ripresenta ogni qual volta un
titolo oscilla tra la rappresentazione ed il suo possibile opposto.
La mia opinione è che nel materiale che si cattura, quindi nella
chiamiamola realtà, ci sono a prescindere tutte le storie di cui un
autore ha bisogno, trattandosi di una sostanza malleabile con gli
opportuni accorgimenti possono uscire fuori dei capolavori di limpida
semplicità. Cruchten non ha creduto nel potenziale nascosto dietro e
dentro le immagini nude e crude, invece di illuminare con il suo
lavoro quei cristalli narrativi che anche un documentario custodisce,
ha preferito forzare optando per un’energica costruzione
finzionale. Il risultato immediato è una perdita di naturalezza
globale e il fatto che si percepisca in maniera gravosa la mano del
demiurgo inaridisce la portata semantica, non è che non si crede al
dolore di una vedova o alle paure di un bimbo malato, solo che con
un’impostazione del genere, si crede, anzi si sente un po’ meno
lo spettro dei sentimenti perché è inquinato da una predisposizione
studiata a tavolino. Il rovescio della medaglia si palesa in una
composizione dal carattere artistico, una sostanza pittorica se non
fotografica piena di istantanee che manderanno in visibilio gli
esteti del settore, Cruchten qui sconfina addirittura nel surreale
con pennellate degne dei migliori visionari (la porta nel bosco; la
pioggia nell’ufficio; l’albero luccicante; gli inserti animati;
la citazione a Stalker
[1979] del finale), se tanto vi basta per raggiungere il vostro
gradimento allora sapete che fare, in caso contrario calma e gesso,
oltre l’ammirabile confezione esterna La
supplication possiede
un deficit teorico che per alcuni (eccomi) potrebbe essere uno
scoglio.
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