La questione non mi è affatto nuova e si ripresenta ogni qual volta un titolo oscilla tra la rappresentazione ed il suo possibile opposto. La mia opinione è che nel materiale che si cattura, quindi nella chiamiamola realtà, ci sono a prescindere tutte le storie di cui un autore ha bisogno, trattandosi di una sostanza malleabile con gli opportuni accorgimenti possono uscire fuori dei capolavori di limpida semplicità. Cruchten non ha creduto nel potenziale nascosto dietro e dentro le immagini nude e crude, invece di illuminare con il suo lavoro quei cristalli narrativi che anche un documentario custodisce, ha preferito forzare optando per un’energica costruzione finzionale. Il risultato immediato è una perdita di naturalezza globale e il fatto che si percepisca in maniera gravosa la mano del demiurgo inaridisce la portata semantica, non è che non si crede al dolore di una vedova o alle paure di un bimbo malato, solo che con un’impostazione del genere, si crede, anzi si sente un po’ meno lo spettro dei sentimenti perché è inquinato da una predisposizione studiata a tavolino. Il rovescio della medaglia si palesa in una composizione dal carattere artistico, una sostanza pittorica se non fotografica piena di istantanee che manderanno in visibilio gli esteti del settore, Cruchten qui sconfina addirittura nel surreale con pennellate degne dei migliori visionari (la porta nel bosco; la pioggia nell’ufficio; l’albero luccicante; gli inserti animati; la citazione a Stalker [1979] del finale), se tanto vi basta per raggiungere il vostro gradimento allora sapete che fare, in caso contrario calma e gesso, oltre l’ammirabile confezione esterna La supplication possiede un deficit teorico che per alcuni (eccomi) potrebbe essere uno scoglio.
mercoledì 17 maggio 2023
Voices from Chernobyl
Potremmo
considerare La supplication
(2016) del lussemburghese Pol Cruchten come la risposta arty alla
serie televisiva Chernobyl
(2019)? Be’, perché no? Le due opere viaggiano su traiettorie
antitetiche però condividono la medesima meta, ovvero raccontarci
quel che è stato e quello che è rimasto del disastro di Černobyl’.
Cruchten, a differenza dei colleghi di HBO, trae spunto da una base
letteraria, il film è infatti un adattamento del libro Preghiera
per Černobyl’. Cronaca del futuro
(E/O; 2002) scritto dal premio Nobel ’15 Svjatlana Aleksievič, e
si avvale di un procedimento che mette in relazione i luoghi
sopravvissuti all’esplosione così come sono ora con le riflessioni
dei superstiti in commento off. L’aspetto peculiare dell’opera è
che se gli ambienti sono “originali” (non è specificato ma
immagino che saremo a Pryp"jat’ o zone limitrofe), i testimoni
sono invece attori, se non proprio tutti, sicuramente una buona
parte. Questa scelta, unita all’utilizzo del francese per esporre i
pensieri sullo schermo, crea un discreto divario percettivo durante
la visione, mi spiego: sull’argomento abbiamo già visto due
lavori: Pripyat
(1999) e The Babushkas of Chernobyl (2015),
un dittico dall’essenza esclusivamente documentaristica, cosa che
non si può altrettanto dire di Voices
from Chernobyl,
il motivo è dato da un congiungersi di strani rivoli artificiali che
solcano l’impianto illustrativo, il susseguirsi di uomini, donne e
bambini che riversano la loro storia ha una cifra quasi teatrale che
può essere positiva o negativa a seconda di come si vuole intendere
il cinema. Per me, che amo l’originarietà e la verità
dell’oggetto ripreso, un intervento massiccio del regista non mi ha
fatto venire la pelle d’oca, sebbene sia doveroso riconoscere
l’alto lignaggio formale che costituisce il film.
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