giovedì 31 luglio 2008

Il Palazzo - Settimo piano

“Qui pesce rosso, qui pesce rosso, c’è nessuno in ascolto? Passo…”
Da otto anni John si attaccava alla radio trasmittente nella speranza che qualcuno rispondesse dall’altra parte. Le scorte alimentari ormai erano ridotte all’osso, e da parecchi mesi non sentiva più i compagni della Ribellione, dopo la grande fuga si era asserragliato in casa sbarrando porte e finestre nell’attesa che qualcuno si ricordasse di lui.

Il cielo era solcato da squadriglie di caccia-bombardieri del regime, all’orizzonte si alzavano come funghi vaporosi i fumi dei bombardamenti. Mentre John osservava col binocolo quell’apocalisse suonarono il campanello.
Di scatto prese il suo fucile, poi si acquattò dinanzi alla porta e con voce decisa chiese: ”Chi c’è dall’altra parte?”
Un ragazzetto rispose: “Sì guardi c’è da mettere una firma per un pacco, se mi apre un attimo per favore…c’ho il furgone in doppia fila giù di sotto, se ci sbrighiamo è meglio.”
“Maledetti, mi hanno trovato” Pensò John.
“Mi scusi c’è ancora? Io avrei fretta…”
John fece muovere col dito lo sportelleto dove passano le lettere, il ragazzo si chinò incuriosito, in quell’istante il soldato fece guizzare la baionetta del suo fucile attraverso la fessura che andò ad incastrarsi nell’occhio del giovane, poi premette il grilletto.
Prima di uscire di casa prese con sé lo stretto necessario: una beretta, un coltello, una coperta, del latte in polvere e alcune gallette di mais.
Si lanciò giù dalle scale e arrivato in strada vide che il regime aveva preso il sopravvento, ogni oggetto, dalle auto agli abiti delle persone, dai palazzi e dai gelati che si vendevano nel parco erano di colore viola.
Doveva mettersi in contatto con la Ribellione ad ogni costo, entrò in un bar e chiese dove fosse il telefono. Aveva con sé dei numeri di alcuni suoi compagni, mentre stava inserendo gli spiccioli qualcuno alle sue spalle lo chiamò: “Giacomo…Giacomo sei tu? Santo cielo sono anni che non ti si vede in giro, che fine avevi fatto?”
Il viola che colorava il mondo intorno a lui lentamente svanì, tutto riprese il suo colore naturale: Jhon ritornò Giacomo, non più un soldato ribelle, ma un semplice uomo, non più solo adesso.

mercoledì 30 luglio 2008

Hard Candy

Gioca sporco David Slade, qui al suo primo lungometraggio, ribaltando la concezione classica che abbiamo del lupo e di Cappuccetto Rosso, del carnefice e della vittima.
Ma si spinge oltre perché il sottile gioco condotto dalla ragazzina svela piccoli particolari che col procedere della narrazione smontano le supposizioni fatte fino a quel momento, ed è questo il punto di forza del film: l’incertezza. Lo spiazzamento dello spettatore è totale, egli non riesce ad identificare cosa è il bene e cosa è il male.

La trama è molto particolare, e credo unica: Hayley (una Ellen Page titanica), conosce in chat Jeff, un affermato fotografo di modelle. Dopo tre settimane decidono di incontrarsi in un bar, subito nasce un feeling particolare che spinge Jeff ad invitare la ragazza in casa sua. Tutto normale direte voi, il problema è che Hayley ha 14 anni e Jeff una trentina, arrivati in casa la “piccola” si dimostra molto più furba di quanto si possa immaginare, o forse più pazza, chissà…

L’ambiguità su cui si basa il film è travolgente, spesso Hayley durante le sue sevizie afferma di essere in cura da un’analista, di conseguenza si tende a pensare che sia pazza, poi quando trova le foto di Donna, una ragazzina scomparsa tempo prima, nella cassaforte di Jeff, ecco che le idee sul suo conto vengono smantellate.
Allora Jeff è un pedofilo assassino?
Oppure Hayley è una giovane squilibrata che sevizia un povero innocente?
Su questi due inquietanti interrogativi si sviluppano alcune dinamiche psicologiche molto interessanti che poi sono il fulcro del film, perché detto tra noi è un po’ inverosimile che una quattordicenne riesca a legare e torturare un uomo che è il doppio di lei.
Senza andare a scomodare troppo Freud, mi sembra abbastanza evidente che Jeff rappresenti per Hayley l’oggetto attraverso il cui scaricare la propria energia derivante dalla sua pulsione vendicativa. I metodi utilizzati dalla ragazzina per raggiungere il suo “piacere” tendono ad annullare la personalità di Jeff, l’evirazione, perdita della virilità, ne è un esempio insieme alla riapertura di vecchie ferite come la relazione con la sua ex.
Inoltre si potrebbe osservare nel comportamento di Hayley un processo di identificazione con l’oggetto (Jeff), un meccanismo attraverso il quale si sopprime la paura di un aspetto della realtà (la pedofilia in questo caso) assumendo le caratteristiche dell’oggetto temuto così come i bambini quando giocano a fare i fantasmi o i dottori, e così come Jeff faceva alle sue presunte vittime.

Ho letto di una regia perfetta, dal canto mio non posso che confermare, anche perché è sempre molto difficile mantenere alta la tensione quando in scena sono presenti solo due attori per quasi tutta la durata del film, in più ho notato una particolare attenzione nei colori, per esempio: quando viene pronunciata per la prima volta la parola “pedofilia” le luci intorno ai due protagonisti si abbassano di colpo creando un’atmosfera tetra, oppure nel dialogo finale che rappresenta un ossimoro: sotto il sole che dovrebbe portare la chiarezza emerge il marcio, che forse è la verità, o forse no, ma che importa in fondo?
Consigliatissimissimo.

martedì 29 luglio 2008

La principessa nuda

Curioso (ma neanche troppo) cimelio trashistico del 1976 diretto da Cesare Canevari che ha come attrazione principale, pardon, attrice principale, Aijta Wilson all’anagrafe Geroge Wilson, "grande" interprete di film come Gola profonda nera (1976) o Macumba sexual (1983) di Jesus Franco.
Non meno importante è la presenza di Franz Drago, un nano avvolto dal mistero di cui in rete non vi è alcuna informazione sul suo passato e che paragonerei allo straordinario Peter Bark di Le notti del terrore (1981).
La (il) Wilson interpreta la principessa Mariam proveniente dal fantomatico stato di Taslamia in Africa, o forse dal primo svincolo in tangenziale, moglie di un despota tiranno, che si reca a Milano per chiedere finanziamenti economici per la sua terra. Contemporaneamente un paparazzo inizia a pedinarla per cercare di coglierla in flagrante con qualche uomo. Alla fine sarà proprio lui a farsi la principessa, e tutto ciò che accade prima ha poca importanza… oddio ha poca importanza anche il finale, come tutto il resto del film d’altronde.

Erano i tempi in cui definire una persona di colore “negro” non era ancora politicamente scorretto, erano i tempi dove il lesbicismo era il non plus ultra in quanto a perversione sessuale, in più la protagonista in questione è un travestito (operato) quindi posso immaginare il trambusto causato da questo film.
Milano sembra una succursale del Bronx falcidiata da stupri e furti, illuminata da insegne pubblicitarie neanche fosse Piccadilly Circus. L’attrice principale è espressiva quanto una statua di cera, un po’ meglio il giornalista.
Parlare di sceneggiatura è quantomeno azzardato, i dialoghi sono fragili come grissini e insulsi quanto la prossima edizione de L’isola dei famosi. Ma il meglio arriva con il rito voodoo e l’orgiazza finale dove partecipa un'ingrifatissimo Franz Drago e che ricorda, alla lontana, La grande abbuffata (1973) di Ferreri; qui il trash diventa psichedelico, quasi weird per usare un termine figo, slegato e insensato dal resto della pellicola già di per sé piuttosto assurda.

P.S. per gli sporcaccioni (di cui faccio parte): non fatevi ingannare dal titolo e dalle foto che ho messo, è tutta roba soft-core condita dal classico pelame anni 70.

lunedì 28 luglio 2008

I trapezisti


In volo.

“Afferrami.” Lei non lo dice ma è questo il senso.
E lui capisce. Aggrappati al trapezio, intorno il vuoto immenso.
Penzolano, oscillano, tra le mani il cemento.
“Non ti lascio.” Sussurra lui, l’eternità che diventa un momento.
Il circo che è la vita si trascina stancamente, teatrino d’illusioni, capriole, avvitamenti.
Privazioni e stenti.
“Devo lasciarti.” Senza scelta, è lo spettacolo che lo impone,
dita che scivolano, rumori nel tendone.

In picchiata.

“Ho sbagliato.”Lui si dispera ma ormai è tardi.
Lei precipita. A braccia tese, non restano che i loro sguardi.
Il pubblico annoiato ridacchia, presta attenzione.
“Perché?” È la domanda, il tormento, è l’ossessione.
Il circo che è la vita si trascina stancamente, sogni infranti, ricordi, sentimenti.
Lacrime e lamenti.
“Mi dispiace…” E neanche la rete attutisce il dolore,
di questa storia che è metafora dell’amore.

sabato 26 luglio 2008

Alex l'ariete

Adesso ti racconto una barzelletta sui carabinieri:
Allora, c’è una tipa bionda che si chiama Antavleva, sì lo so è un nome del cazzo ma a me l’ hanno raccontata così, testimone dell’omicidio di una sua amica. In pratica ci stanno dei tipi loschi - tipo… hai presente Clooney in Dal tramonto all’alba? Ecco proprio l’opposto, che vogliono fare fuori la bionda, oh quasi ci riescono, però Leva c’ha la pellaccia dura e sopravvive ad un attentato.

Non fa ridere...

Aspetta aspetta!Ora entra in scena Alex, Alex l’ariete.

Chi??

Uno che potrebbe assomigliare a… vediamo… mmm… Alberto Tomba! Sì spiaccicato! Ecco allora 'sto Alex fa un casino durante una delicata operazione, cioè lui non è che ha colpe, gli arriva una carrozzella proprio lì, che poteva fare?

Sì ma che palle…

No no ora viene il bello… dopo st’incidente lo mandano in un paese in culo a Giove, così non fa casino pensano i capi sbirri, però gli danno da portare la bionda dell’inizio in tribunale, in pratica la scorta.

Ma è bona sta bionda?

Ce l’hai presente la Hunziker? Spiaccicata! Quindi partono per andare al tribunale solo che si rompe la macchina, poi li inseguono i tipi loschi, e poi li inseguono ancora i tipi loschi, senza dimenticare che i tipi loschi stanno sempre alle loro calcagna, sparando ai tipi loschi, scappando dai tipi loschi...

Sì, vabbè stringi.

Niente poi alla fine Alex sale su una barca e ammazza tutti. Ah, poi si fa anche la bionda.

Embè? Che stronzata, ma vattela a pijar nel culo va'!

No è che in realtà non era una barzelletta ma è la trama di un film con Alberto Tomba…

Tomba che recita? Ahahahahahahahahahahah questo sì che fa ridere!

giovedì 24 luglio 2008

Quel maledetto treno blindato

Chissà se nel 1977 Enzo G. Castellari avrebbe mai immaginato che parecchi anni dopo il suo film sarebbe stato riscoperto dalla critica grazie a king Quentin che il prossimo anno dovrebbe deliziarci con Bastardi senza gloria, film che omaggia Quel maledetto treno blindato e cha nel cast annovera attori come Brad Pitt, Tim Roth e Michael Madsen.
Il film di Castellari fu distribuito in America col titolo di Inglorious bastards, titolo che doveva essere lo stesso (tradotto in italiano) anche per il mercato nostrano.
I bastardi senza gloria di cui si parla sono un manipolo di soldati americani disertori che scappano dall’esercito per cercare di raggiungere la Svizzera; nella loro fuga quasi impossibile troveranno difficoltà di ogni tipo tipiche della guerra, e alla fine solo pochi riusciranno a sopravvivere.
I protagonisti della pellicola sono indubbiamente gli americani. Castellari, coadiuvato da Sergio Grieco alla sceneggiatura, tratteggia dei personaggi estremamente stereotipati. Il tenente tutto d’un pezzo, il soldato di colore, il soldato impaurito, il soldato italo-americano che risulta immediatamente il più simpatico e subito ho detto: “Questo alla fine muore sicuro!”. E infatti crepa dopo un inseguimento in moto, ma il suo: ”Very good sticchio”, riferendosi ad una donzella in foto, la pettinatura, e il suo armamentario migliore di quello dell’Ispettore Gadget, l’hanno reso immortale nella mia memoria. Comunque questa marcata caratterizzazione dei personaggi è positiva a mio modo di vedere in quanto nel film sono disseminate situazioni ironiche che reggono grazie alle quasi caricature degli interpreti.
Certo, a vederli questi “bastardi ingloriosi” sembrano un A-team della seconda guerra mondiale perché sbaragliano truppe di tedeschi (addirittura conquistano un castello!) e riescono in qualche modo a farla sempre franca, però non essendo un’opera a tinte drammatiche, seppur trattando temi poco allegri, questa atmosfera chiassosa ci sta alla grande.

Infine devo dire che pur avendo un budget limitato la messa in scena è credibile, basta fare un confronto con La bestia in calore (1977) dove veniva presentato un attentato ad un treno simile a questo per capire quanto il film con Baccaro sia ad un livello di “terzo mondo” in quanto a budget. Non c’azzecca nulla ma questa fuga mi ha ricordato I guerrieri della notte (1979), soprattutto quando il gruppetto si rifocilla nei pressi di un fiume e vede un paio di bionde nude che giocano in acqua, le quali si riveleranno delle tedesche (cosa ci facevano lì?) armate fino ai denti. Magari Walter Hill aveva visto il film di Castellari… mah!

Sarei curioso di sapere che cosa ha spinto Tarantino a ricalcare in parte Quel maledetto treno blindato, non essendo un esperto mi è sembrato un discreto film ma come ce ne sono molti altri… vabbè io di Quentin mi fido incondizionatamente, speriamo che spunti qualche succosa anticipazione che non mancherò di riportare qua.

mercoledì 23 luglio 2008

Pescatore


Speranza.
Fede.
Amore.
Apprensione.
Solitudine.
Inquietudine.

Tradimento.

amore.
Scoramento.
Pentimento.
Il mare.

Quanto c’è in questa canzone?

martedì 22 luglio 2008

L'amour braque - Amore balordo

Libero adattamento de L’idiota (1869) di Dostoevskij in chiave mafiosa diretto e sceneggiato da Andrzej Zulawski.

Mickey è un gangster che dopo una rapina con i suoi soci conosce su un treno il giovane Leon, ex malato mentale di ricca famiglia. Il boss lo prende in simpatia e decide di portarlo a Parigi nel suo covo dove attenderlo c’è la sua amante Marie (Sophie Marceau). Tra Leon e Marie sboccia l’amore, ma sarà balordo, appunto.

Zulawski non fa per me.

Con questo film siamo nei pressi di Le mie notti sono più belle dei vostri giorni (1989), gli attori corrono sulla scena, scalpitano, sbraitano, sono chiassosi, convulsi, isterici, nevrotici.
Il gusto barocco (che non ho capito bene cosa sia) è eccessivo, nichilismo e compiacimento viaggiano a braccetto. Non c’è profondità e manca un impianto solido. Qui tutto è urlato, ingigantito, enormi bolle di sapone.
Gli attori sono bravi, anzi bravissimi, ma finiscono per essere schiacciati dalla storia, o meglio da quell’accozzaglia di deliri e insensatezze di cui siamo spettatori.
Meno male che ogni tanto sbuca la Marceu nuda se no è dura arrivare in fondo.
Volevo vedere anche L’importante è amare (1975), primo film di Zulawski, ma credo che abbandonerò questa idea. Non fa decisamente per me.

lunedì 21 luglio 2008

L'Uno per l'Altra - Matite (seconda parte)

Le scale che conducevano all’appartamento di Andrea erano talmente strette da essere percorse obbligatoriamente in fila indiana. I gradini lerci, sbriciolati dal tempo e dal continuo passaggio, si arrampicavano stancamente fino all’ultimo piano dove si trovava la stanza.
“Benvenuto nella suite residenziale cocco, inizia a spogliarti…”
Nella camera aleggiava un’aria pesante complice anche l’arredamento antiquato e spessi tendoni rossi che non facevano filtrare neanche un filo di luce.
Uno si guardò intorno: ”No, spogliati prima te…”
“Va bene basta che ci sbrighiamo però.” Andrea si tolse in un lampo il vestitino di pajette mettendo in mostra il seno siliconato ed un pene esile e lungo. “Che hai da guardare? Non ne hai mai visto uno a parte il tuo? Avanti togliti quel vestito da impiegato statale.”
“Sdraiati a letto per favore.” Uno aprì la sua valigetta, dentro c’erano un centinaio di matite H7, tutte accuratamente temperate, e tre paia di manette.
“Te lo dico bello, con quelle fanno 100 bigliettoni in più, la roba sadomaso non mi piace, ma sono una persona di sani principi per cui sul lavoro do il cento per cento, oh ma ti spogli o no?”
Uno immobilizzò le mani di Andrea alla spalliera del letto e legò i piedi tra loro con l’ultimo paio di manette che gli rimanevano, poi accarezzò la coscia del travestito e con quasi le lacrime agli occhi disse: ”Io non sono cattivo, te lo giuro, mia moglie è incinta di un altro uomo...ti prego perdonami...”
“Ma cosa stai dicendo?”
In una frazione di secondo Uno piantò due matite nelle orecchie di Andrea, giù lungo il condotto uditivo fino a conficcare la punta affilata nella membrana del timpano.
Il trans cacciò un urlo disumano.
“Perdonami...ti supplico di perdonarmi, tu non sei un’ombra...abbi pietà di me…” Poi prese un’altra coppia di matite e appoggiò la punta di esse sulle narici, con un movimento repentino della mano le incuneò su per le cartilagini del naso. Dagli occhi di Andrea uscirono lacrime di sangue.
“Dio con la tua bontà infinita perdonami. Perdonami te lo chiedo in ginocchio.” Intanto infilzava le matite sotto le unghie del travestito staccandole dalla pelle.
Nonostante Andrea fosse ormai privo di sensi quando Uno cominciò a masturbarlo i corpi cavernosi all’interno del suo pene riuscirono ancora a trattenere il sangue arterioso facendogli raggiungere un’erezione sufficiente.
La disperazione di Uno si tramutò in rabbia mentre con la sua mano andava su e giù: ”Perché a te sì, perché ? Brutto pervertito di merda, adesso ti faccio vedere io, così impari a prenderti gioco di me!”
Questa volta prese la matita più appuntita.
La infilò di prepotenza con la mano destra nell’imboccatura dell’uretra, mentre con la sinistra teneva fermo il pene, e intanto rideva, come il giorno del massacro, anzi forse di più, ora si sentiva davvero vivo, non era male uccidere una non-ombra.
Prima di uscire dalla stanza prese il pacchetto di multifilter del travestito, aveva finito le sue sigarette.
Fuori era ormai notte fonda, un freddo venticello asciugò il sudore sulla sua fonte. Cosa avrebbe raccontato ad Altra per questo ritardo? Mentre pensava ad un risposta credibile si incamminò verso casa.

domenica 20 luglio 2008

Zatoichi

Kitano ripropone la leggenda del massaggiatore cieco Zatoichi, una vera e propria istituzione in Giappone essendo protagonista di ben 26 film tutti inediti nel nostro paese.
A prescindere dalle varie considerazioni che si possono fare sull’opera, mi sembra ineluttabile sottolineare la prova di Kitano attore, che non sarà De Niro o Jack Nicholson ma che però riesce in una qualche maniera che mi sfugge a calamitare l’attenzione dello spettatore pur restando la maggior parte del tempo in silenzio, e la stessa sensazione l’avevo provata guardando Brother (2000), anche lì Kitano sprizza un carisma fuori dal comune… forse sarà quella sua espressione un po’ innaturale dovuta ad un grave incidente motociclistico nel 94, o forse quell’impercettibile tic che io credevo fosse voluto nel film sopraccitato mentre invece viene riproposto anche qua. Io non lo so, fatto sta che la mia attenzione al film era direttamente proporzionale alle sue entrate in scena, e sì perché se all’inizio ho detto che Zatoichi è un massaggiatore in realtà è anche un virtuoso della spada che nel suo vagabondare giunge in un villaggio dove è in corso una sanguinosa faida tra famiglie. Il massaggiatore decide di aiutare i più deboli portando a compimento una vendetta attesa da anni.

Il sangue non manca, le spade disegnano ferite sui corpi dei poveri sventurati come pennelli su di una tela, sembra proprio una violenza più "artistica", se così si può dire, diversa, per esempio, da quella occidentale di Kill Bill. Kitano poi inserisce parecchi siparietti comici all’interno della pellicola (il personaggio di Zatoichi era stato proposto in chiave umoristica nel suo Getting any?) come il ragazzo che si crede samurai e corre come un matto tra i campi di riso. Inoltre il regista fonde musica e film in una cosa sola. I balletti dei contadini sotto la pioggia, o lo strambo e coinvolgente tip-tap finale sono elementi che si amalgamano con i combattimenti iper-violenti fino a essere quasi indistinguibili.

C’è un però.
Ho visto Zatoichi in circa tre giorni, spezzettandolo in più e più parti. Non per mancanza di tempo, di quello ne ho in abbondanza, semplicemente perché non ero catturato dalla storia. E questo è un brutto segnale perché significa che non mi ha incollato allo schermo.
La faida tra le famiglie non è così originale e la somiglianza fisica dei vari personaggi contribuisce a renderli poco distinguibili gli uni dagli altri, a bilanciare c’è una fotografia egregia e combattimenti spettacolari, fate voi i conti.

sabato 19 luglio 2008

Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi

Mi inchino davanti all’intelligenza di Romero.
Intelligenza, e non è un caso che io usi questo termine perché è uno dei pochi registi horror, se non l’unico, che riesce sempre a creare film che si “vestono” in un certo modo ma che in realtà contengono un sotto-testo ferocemente sarcastico. Tutti hanno negli occhi le immagini di Zombi (1978) in cui orde di morti viventi si riversavano in un centro commerciale, facendo così Romero criticò a suo modo lo sfrenato capitalismo paragonandolo, appunto, al cannibalismo.
Nel 2005, con La terra dei morti viventi il regista crea un magnifico parallelismo con l’America dei nostri giorni e la città assediata dall’ esercito di zombi mentre nel palazzo del potere vige la corruzione morale e la violenza.

In Diary of the Dead (2007), che è totalmente slegato dai suoi film precedenti, Romero costruisce una storia che potrebbe definirsi normale per questo genere, ovvero un manipolo di sopravvissuti che scappa dall’inferno in Terra, ma che in realtà è molto ma molto di più. L’intero film è un documentario fittizio, alla Cannibal Holocaust (1980) per intenderci, girato da Jason che non abbandona mai la sua camera perché sostiene che ciò che non è ripreso è come se non fosse mai avvenuto. La sua ragazza Deb, un professore, e altri ragazzi sono i suoi compagni di viaggio nella disperata fuga verso chissà dove.

Romero affonda il coltello laddove la nostra società si sente più sicura: l’informazione. Che sia internet o i mass-media, il regista americano non risparmia nessuno dei mezzi di comunicazione, egli stesso appare nei panni di un poliziotto che davanti alla tv svela l’insabbiamento della diffusione dei morti viventi. Jason, il protagonista, è pervaso da un’irrefrenabile impulso di uploadare il suo filmino su internet mentre la sua ragazza vorrebbe usare la rete per mettersi in contatto coi genitori, questa pulsione irrefrenabile di Jason è la stessa di un qualunque blogger (e quindi di me stesso) che spinge a condividere la propria “verità” col mondo intero.
È molto interessante la riflessione di Deb quando dice che davanti ad un incidente difficilmente ci fermiamo ma non possiamo fare a meno di guardare. Questo spirito voyeuristico pervade l’intera pellicola, è come se ci fossimo noi in prima persona a lottare contro gli zombi, e sempre Deb mi ha illuminato dicendo: Alla fine, anche noi siamo entrati a far parte del flusso continuo di informazioni. È strano come guardando le cose attraverso una lente, o un vetro, alla fine diventi immune. Dovresti essere coinvolto ma invece non lo sei. È così o no? Siamo talmente bombardati di informazioni che di qualunque natura esse siano è come se diventassimo vaccinati nei loro confronti. Il bambino con le mosche attaccate gli occhi in Africa, l’automobile ridotta ad una scatoletta di tonno il sabato sera, la strage famigliare, sono tutti eventi di cronaca che ci sfiorano appena e non ci coinvolgono perché filtrati da uno schermo.
Gli ultimi minuti devo ancora assimilarli per bene, mi è sembrato fuori contesto la frase: meritiamo di essere salvati? Decidi tu… La crudeltà umana è fuori discussione, ma non era stata presa in considerazione granchè fino a quel momento, almeno non ai livelli di Il giorno degli zombi (1985).

Vabbè, gli zombi di Romero restano comunque i migliori, lenti ma posizionati al momento giusto nel posto giusto. Gli sbudellamenti non sono eccessivi e anche la geniale visionarietà di Romero questa volta latita un po’ escludendo il suicidio del contadino amish, e l’ultimissima immagine (qui sotto) che per conto mio può già passare agli annali della storia del cinema.

venerdì 18 luglio 2008

Maladolescenza

E così parecchi mesi dopo ho deciso di rivedere Maladolescenza, quando mi ero promesso di non farlo mai più. Ma il mio lato cinico ha prevalso convincendomi del fatto che i miei contatti aumenteranno notevolmente dopo questo commento. E un po’ me ne dispiace perché penso, e spero, che questo blog contenga qualcosa di più che squallide favole hard o pessimi pornazzi girati con attrici allo sbando, ma tant’è…Per Maladolescenza non voglio sentir parlare di fiaba. No. E nemmeno di metafore adolescenziali, simbolismi (il bosco o il cane) o quant’altro è stato affiancato a questo film. Se non è pedofilia questa, ci va pericolosamente vicino.
La vicenda si snoda all’interno di un bosco in Boemia (dove Murgia ha girato il film per scansare la censura italiana) e vede per protagonisti tre ragazzetti di neanche quindici anni: Fabrizio (Martin Loeb), a cui deve essere morto il parrucchiere, Laura (Lara Wendel) e Silvia (Eva Ionesco). Non so se sia il caso descrivere accuratamente quello che succede perché so che potrei attivare quel meccanismo perverso per cui “so bad, so good” che ha portato me stesso alla visione di questa immondizia, vi basti sapere che i corpi glabri e informi dei tre non vengono risparmiati, e vi posso assicurare che è davvero fastidioso vedere bambini che fanno sesso orale, almeno io non ci sono abituato.
Non condanno Pier Giuseppe Murgia per quello che racconta, ma per come lo fa. Il plot teoricamente potrebbe avere anche qualche potenzialità, ma la mdp indugia troppo sulle nudità dei protagonisti perdendo ogni velleità artistica e sfociando nel cattivo gusto. Ma poi perché “mala”? Cosa c’è di sbagliato nel seguire le proprie pulsioni nel periodo più bello e allo stesso tempo più complesso nella vita di un essere umano? Non mi convince il film perché sembra usare il pretesto della psicologia spicciola per mostrare le immagini più scabrose e perverse. E poi personaggi sono davvero risibili, mancano di quella goffaggine e tenerezza che contraddistinguono gli adolescenti che fanno i primi timidi passi nel mondo dell’eros. Mi riferisco in particolare alla Ionesco (nel '76 Playboy pubblicò un servizio in cui posava nuda, e aveva 11 anni!) che sembra una zoccola navigata nei suoi atteggiamenti così adulti, per non parlare di Fabrizio a cui farebbe bene qualche seduta psicanalitica per l’instabilità emotiva e i repentini cambiamenti di atteggiamento nei confronti di Laura che prima viene seviziata con un serpente (scena pessima) e poi trom… non ce la faccio a scriverlo, in una grotta (scena ancora peggiore).

La maniera in cui alcuni temi vengono affrontati sfiora la comicità involontaria, se per dimostrare la crudeltà dei ragazzi il regista fa pisciare Fabrizio in testa a Laura, o fa uccidere un piccione a frecciate, tutto ciò non fa altro che confutare la mia tesi del sensazionalismo a scapito del significato.
Ho letto di una presunta scena tagliata in cui Eva Ionesco approcia col cane lupo di Fabrizio, ecco ci mancava giusto una scena di zoofolia in questo sfacelo.
Alcuni lo hanno apprezzato, addirittura su Mymovies c’è un commento che termina così: Inquieto, drammatico, morboso, mi ha entusiasmato per la sua atmosfera realisticamente adolescenziale sottolineata da una musica dolcissima. Un film unico, irripetibile oggi.
E meno male aggiungo io.

mercoledì 16 luglio 2008

L'esperimento

Duecentesimo post dedicato ad un esperimento.
Se tutto va bene, come direbbe Costanzo, famo er picco...

martedì 15 luglio 2008

Delirio caldo

Dicono che questo sia il miglior Polselli, dicono.
Pronti via e da una panoramica in un bar chi ti vedo? Il ticchioso di Oscenità (1980) e Mickey Hargitay evvai, la baracconata può avere inizio…
Hargitay è uno psicologo… no, ricominciamo.
Hargitay è il killer… non prendiamoci in giro.
Hargitay è l’attore… per carità.
Hargitay non si sa bene cosa sia, vaga per il film sostenendo di essere uno psicologo ma il suo ruolo non è ben chiaro, secondo me neanche Polselli l’ha capito. Comunque è anche un assassino ma quando viene catturato dalla polizia a causa dei sospetti che gravano su di lui viene uccisa un’altra donna. Chi sarà il nuovo killer?

Ora, si può parlare seriamente di un film in cui c’è un personaggio che si chiama Crocchetta, sosia “bello” di Baccaro, doppiato con un accento “ammeregano” e vestito come un contadino del profondo sud? No non si può. Il bello, o il brutto, è che il Crocchetta, essendo il principale indiziato, si mette sulle tracce dell’assassino e risulta più furbo dei due poliziotti che indossano con grande stile camicie arcobaleno o a pois.
Ma Hargitay è il vero protagonista. Alcuni primi piani sono inquietanti, in certe scene è colto da raptus isterici che producono smorfie degne del miglior Andolfi; si definisce un “folle impotente” e parla di indagini a carattere metereopsichico (?), maltratta la moglie (Rita Calderoni) passandole un “coso” (giuro, non si capisce cosa è) sulla schiena; adesca ragazzine, collabora con la polizia, picchia il Crocchetta, strangola, uccide, insomma ha tutte le credenziali per diventare un mio mito.
Delirio caldo rappresenta l’incursione di Ralph Brown nel giallo italiano, anzi no, è il giallo che entra nel mondo di Polselli. Il mondo da lui creato è a sé stante, ci sono così tante incongruenze nei suoi film che vien quasi da chiedersi se Polselli non ci stia prendendo per il culo. E a proposito di culi, in Delirio Caldo non mancano, fedele alla sua linea, il Nostro infarcisce di zinne e di panari molte scene in cui non ce ne sarebbe il bisogno. Esempio: che senso ha far vedere la cameriera che si masturba? Oppure: la sequenza onirica che vuol dire? Hargitay che si dimena incatenato davanti ad un’ammucchiata lesbo è ridicolo.

Vorrei parlarvi del finale, ma mi son perso da quando è uscito di scena il Crocchetta, anche se poi riappare in cima ad una scala con i poliziotti fricchettoni. Ah, Hargitay alla fine si prende delle frustate al replay che graffiano il suo viso da bellimbusto.
Anche le musiche sono fuori, di testa e dal contesto. Non ce n’è una azzeccata.
Dicono che questo sia il miglior Polselli, siamo a posto allora.

domenica 13 luglio 2008

Body Puzzle

Lamberto Bava dovrebbe avere nel dna la paura. Saperla infondere, ovviamente.
Ho visto poco di lui per poter giudicare (Macabro, 1980 e Ghost Son, 2006), ma da quel poco non credo di bestemmiare se dico che è lontano da suo padre, e parecchio.
Eppure Body Puzzle non è mica male.
Nel '92 la decade d’oro dei gialli italiani era passata già da un bel pezzo, Bava arriva fuori tempo massimo ma saggiamente inserisce una violenza che non appartiene a questo filone ma è propria dell’ horror nostrano 70-80 che tanto mi piace. Peccato che, A: ho beccato un rippaggio da vhs più sbiadito della Montalcini nella candeggina; B: temo di aver visto la versione deturpata dalla censura che costrinse una ridistrubuzione del film col titolo Misteria.

Beh, che dire (odio quelli che incominciano in questo modo un commento, ma scrivendolo ho avuto l’occasione di rendere pubblica questa mia avversione e soprattutto di guadagnare qualche riga, che tanto poi lo so che nessuno legge quello che c’è scritto, però mi piace darmi una certa forma) il plot è buono, non sarà un thriller di Fincher ma ha la sua dignità. I vari omicidi sono ricchi di inventiva (escluso quello della piscina che è davvero improbabile) come l’assassinio della maestra nella classe di bambini ciechi durante la lettura di una favola con spruzzate di sangue sui volti dei bimbi non vedenti, superlativo.
Anche la recitazione è decente. Joanna Pacula è la brava protagonista insieme a Tomas Arana, i cui nomi detti così sembrerebbero i classici tizio e caio, ma se googlate vi si apriranno le porte della conoscenza, inoltre c’è Gianni Garko (Sette note in nero, 1977) e Paolo Baroni nel ruolo del caramellaio morto ammazzato che attualmente apre la porta nel programma di Bruno Vespa… mamma mia, su un caso così Vespa ci avrebbe campato cento puntate, con tanto di plastico e summit di “menti” del nostro paese, tipo Sgarbi e la Mussolini.

E funziona anche il finale, ciò che essenzialmente non va è la libertà di Abe, il killer. Praticamente è come un fantasma, entra ed esce da una casa sorvegliata dalla polizia, uccide un tizio dentro ad una piscina, accoltella una maestra dentro ad una scuola, addirittura riesce a fuggire non si sa come da un ospedale con un poliziotto alle calcagna. Realismo zero. Però che finale! Sul fatto che Abe potesse essere il marito ci avevo pensato, certo che quelle ultime immagini con l’inseguimento del killer da parte di Tracy è un colpo di scena magistrale, in pratica Bava tira le fila dell’intrigo lasciando le conclusioni allo spettatore; e forse la componente psicologica è l’aspetto migliore dell’opera perché non viene urlata ma suggerita, ripeto: l’inseguimento finale è rivelatore, il climax della vicenda, lo sdoppiamento e la traslazione delle personalità. Merita una visione solo per questo!

sabato 12 luglio 2008

Pino il pelo ribelle

C’era una volta un pelo pubico di nome Pino, che stanco di starsene sempre rintanato nelle mutande decise di vedere com’era fatto il mondo là fuori. Mano a mano che cresceva i suoi compagni lo guardavano con ammirazione, loro erano così piccoli e arricciati, aggrappati alla pelle e a se stessi, che non sarebbero mai riusciti ad andare oltre il totem.
Il totem faceva paura ai piccoli peli, così imponente e pieno di nervature; era piuttosto scorbutico, non parlava mai con loro, si ringalluzziva soltanto quando incontrava una spirale, allora si alzava tutto tronfio e metteva in mostra la sua punta d’avorio rosa. Il linguaggio delle spirali è diverso da quello dei totem, ma tra peli ci s’intende e così i ricciolini della spirale conversavano con quelli del totem, e Pino, che intanto cresceva, disse a loro che era stufo di starsene sempre al buio, voleva vedere la luce.
La voce si sparse in fretta, non c’era pelo o capello che non parlasse di Pino, nacquero dei fan club in tutto il mondo, vennero stampate magliette con la sua faccia, una boy-band gli dedicò una canzone, il papa gli diede la sua benedizione, Mc Donald’s decise di inserirlo come sorpresa dentro l’happy meal, un produttore di Hollywood finanziò un film sulla sua vita, Paris Hilton dichiarò di avere una storia con lui, Gorge Michael disse la stessa cosa, David Becham si tatuò la sua immagine sotto il nome di suo figlio, la Apple ideò il Pino-Pod, Bin Laden si fece riprendere durante un suo messaggio terroristico con indosso la maglietta di Pino, Bush fece la stessa cosa, no, non l’attacco terroristico cari lettori, ma la maglietta, la Fiat lanciò sul mercato un’utilitaria col suo nome, su alcune banconote fu stampata la sua foto, e mille altre cose ancora.
Pino, il pelo ribelle, stava diventando un Dio.
Un giorno però il suo padrone si accorse che stava crescendo troppo, così con una sforbiciata lo tagliò. Mentre cadeva inesorabilmente verso il basso vide il totem sghignazzare sbeffeggiandolo con la sua capocchia, e i suoi amici peli abbracciarsi tra loro disperati. Anche il mondo pianse per lui, ma solo fino a quando si sparse la voce di un gattino cinese che sapeva dire l’alfabeto cirillico al contrario.

mercoledì 9 luglio 2008

Zombie Strippers

Se in un film ci metti degli zombi devi fare i conti.
È come inventare una bevanda al retrogusto di caffè o un opuscolo di cruciverba, ti diranno: “Ehi è meglio la Coca Cola! Ehi è meglio La settimana enigmistica!”
Se in un film ci metti gli zombi devi fare i conti con Romero.È stato il primo (ad avere così successo) e non ci sono cazzi, tutti quelli dopo subiscono l’onere del paragone con i morti viventi romeriani. In molti ci hanno provato, c’è chi ha saputo inventare, ma neanche troppo, come Danny Boyle, chi ha saputo copiare (bene) ,vedi L’alba dei morti viventi (2004), chi ha saputo riproporre tipo Rodriguez, e chi ha fallito miseramente: qui la lista sarebbe troppo lunga.
Zombie Strippers fa ridere. No, non nel senso che è di una qualità talmente infima per cui rido per non piangere. No, fa ridere seriamente, beh non sganasciare, quello no, ma tutta la vita questo film piuttosto che un film di Boldi! Quindi il lato comico è ben solido. Quello horrorifico pure. Sangue e sbudellamenti come se piovesse.
Poi, i due protagonisti principali sono: Robert Englund e Jenna Jameson. Ma cavolo ci pensate? Uno è stato la migliore maschera horror degli ultimi anni, l’altra è LA pornostar, colei che ha mutato l’immagine delle attrici porno diventando una vera e propria icona del genere.
Sti cazzi direte, e in fondo avete ragione, ma Englund è davvero un Attore e da solo tieni in piedi tutta la baracca facendo la parte del boss cinico, che già aveva ricoperto nell’episodio di Tobe Hooper per Masters of Horror (2005), disposto a tenere nel locale ballerine zombizzate pur di guadagnare denaro. Jenna invece è LA strippers. La migliore, la più invidiata e allo stesso tempo amata dalle sue colleghe, è la prima a contrarre il virus misterioso che per un qualche motivo aumenta ancora di più la sua carica erotica agli occhi dei clienti.Già dalla grafica del titolo, un po’ alla Death Proof, si capisce che Jay Lee voleva dare al film un’atmosfera stile grindhouse, di quelli con tette e culi. Beh di zucche e deretani ce n’è a schifo, l’atmosfera invece deve essere finita nel fondoschiena di qualche stripper perchè non l'ho vista; poco male a mio avviso: se l’obiettivo era di far sorridere, anche amaramente vista la satira politica che permea la pellicola fin dai primi minuti, ci è riuscito. Indimenticabile la scena in cui Jenna ormai totalmente zombizzata si cimenta in un “cat-fight” con un’altra stripper anch’essa rediviva sparando palle da biliardo tramite la sua passera, geniale! E poi Englund, spassoso come pochi, con a seguito la sua comitiva scapestrata formata dall’ entrneuse sovietica , dall’inserviente sudamericano che battezza i proiettili con i nomi di rivoluzionari messicani, e dall’addetto alle luci. Una banda di idioti dannatamente divertenti.
Certo, l’originalità non si vede neanche col binocolo, l’accostamento a Dal tramonto all’alba (1996) è come il soggetto, sottointeso. Ci sono anche citazioni a La notte dei morti viventi (1968), ma io non le ho colte perché il film di Romero non l’ho mai visto, sì me ne vergogno molto, vado ad inginocchiarmi sui ceci.

Zombie Strippers
è nel complesso un prodotto ben confezionato che può far passare piacevolmente una serata insieme agli amici grazie alla presenza di: poppe, sederi, sangue, ironia. E Jenna Jameson.

martedì 8 luglio 2008

Koma

NON È UNA GHOST-STORY!
No lo dicevo perché magari uno pensava: ”Che palle il solito fantasma capelluto che si crede Linda Blair.” Invece no, qui si parla di reni. E non ditelo a mio padre che ha a causa dei calcoli renali ha scardinato le porte del Paradiso a suon di bestemmie, e pure ad una mia amica che c’ha un rene solo e a volte sviene di botto.
Allora, il titolo mi è oscuro, con la k poi... bisognerebbe chiederlo a Chi-Leung Law. Come chi è Chi-Leung Law? È il regista del film! Che cita Kubrick negli ultimi minuti, sì ok era facile come citazione da beccare, ma veder spuntare dalla breccia il visino di Ching invece che quello di Jack fa il suo effetto.
In Koma la vicenda si snoda su due piani narrativi differenti: uno mi ha intrigato, l’altro no.
Mi è piaciuto questo triangolo tra Ching, Ling e il tipo. Ching è la fidanzata ufficiale, bella, ricca e malata. Ha classe ma non si fa trombare perché non può, dice che puzza (io avrei soprasseduto su questa inezia). Ling è una puttanella, di quelle che non è che le piace prenderlo, cioè le piace, ma più che altro gode nel sottrarre a qualcuno qualcosa, è invidiosa. Guarda caso il fidanzato di Ching è amico di vecchia data di Ling e quindi ci danno dentro, però lui è innamorato di Ching eh!
Poi c’è la faccenda dei reni. Che è complicata, forse troppo. Il regista avrebbe potuto fare un film solo su 'sta storia da quanta carne al fuoco mette, ecco parlare di carne forse è un tantino fuori luogo dato che si vedono più reni che dal macellaio, però c’è davvero tanta roba: un Robin Hood che ruba i reni per darli ai malati (in cambio di un cospicuo pagamento), Ching che soffre di insufficienza renale, Ling che ha il suo stesso gruppo sanguigno (toh!), un rapimento ai danni della prima, il seguente e "strano" salvataggio da parte di Ching, sono amiche o nemiche? Boh. Sono amiche, per la pelle dice Ling. Ching decide di comprare un rene perché il suo è da rottamare, chiama il tizio che l’aveva rapita, va con Ling in un cesso pubblico. Compra il rene, arriva la polizia, Robin Hood prende in ostaggio Ling, si chiudono nel cesso e lui si ammazza. Poi arrivano un paio di colpi di scena.
Il rapporto ambiguo che si instaura tra le due è reso alla grande, fino all’ultimo non si capisce da che parte stia il male, ed io non l’avrei rivelato! Preferisco i finali che lasciano in sospeso a quelli che propinano spiegoni anestetizzanti. Però devo ammettere che l’ultimissimo colpo di scena mi è piaciuto molto, cazzo sì, cattivo e senza speranza. E adesso come farai cara la mia Ching?

Koma non è un film orientale, invece che Honk Kong potrebbe esserci scritto Hollywood, e infatti ci vedrei benissimo un remake con Halle Berry fragile protagonista e una Winona Rider cazzuta antagonista. Non è una pecca questa, anzi rappresenta una piacevole scoperta che conferma la ricchezza del cinema con gli occhi a mandorla.
Io lo consiglio, poi fate voi.

venerdì 4 luglio 2008

Le avventure erotix di Cappuccetto Rosso

Se possedete ancora tutte le diottrie potrete leggere in piccolo che si tratta del primo kolossal della storia del cinema hard italiano, che detto così sembra niente, ma sfido chiunque a guardare due ore e mezza di tette siliconate che sballonzolano a destra e a manca, folletti che parlano in rima, nonne che non sono nonne, lupi che non perdono il pelo e neanche il vizio. E c’è pure Ron Jeremy.

Damiano ricicla alcuni attori e (credo) la stessa location di Alice nel paese delle pornomeraviglie (1993), creando un ping-pong erotico fra tre set diversi. Nel primo c’è la madre assatanata di Cappuccetto Rosso (Barbarella) che sfinisce reiterate volte due boscaioli, nel secondo vengono mostrate le conoscenze che Cappuccetto fa nel bosco, tra cui il Bianconiglio (Damiano si autocita!), un folletto di colore che è brutto come la fame e che porta la protagonista nella sua dimora insieme ad altre due donzelle le quali assaggeranno il “serpentello” (così viene chiamato) del folletto e di Ron Jeremy. Nel terzo si assiste alla nonna che mentre aspetta le medicine portate da Cappuccetto, ovvero vibratori et simila, si trastulla con qualunque oggetto abbia una forma fallica.
Nel frattempo il lupo cattivo pedina nell’ombra la tenera Barbarella, e quando viene a conoscenza della sua meta, la anticipa intrufolandosi nella casa della nonna che non aspettava altro che un uomo. Forse questo è il momento più riuscito perché la vecchia finge di essere violentata ed intanto è la prima a toccare, poi durante l’amplesso sviene (sì con la "s", non pensate sia un errore) improvvisamente così il lupo la nasconde nell’armadio prendendone il suo posto. All’arrivo di Cappuccetto… beh che lo scrivo a fare!

Anche per l’onanista più incallito questo kolossal hard risulterà indigesto, troppo lungo e troppo ripetitivo, come la maggior parte dei porno del resto. Le spruzzate di ironia, vedi i disegni a cartoni animati, le rime, o le innocenti allusioni di Barbarella non fanno ridere per un cazzo. Le attrici, esclusa una di colore, non sono granché (sto parlando di bellezza :p), e non c’è neanche troppa varietà di inquadrature (leggi posizioni).
Insomma, Klito Bell (1982) tutta la vita!

L'ombra del dubbio

Parto dall’aspetto più negativo: il doppiaggio italiano. Il peggiore che abbia mai sentito. Atono, quasi dialettale, per non parlare dei bambini che hanno una cadenza spagnoleggiante. In più i nomi propri vengono italianizzati e così lo zio Charlie diventa lo zio Carlo, e la città di San Francisco diventa San Francesco. Terribile. Io appoggio Lynch quando afferma che i film dovrebbero essere trasmessi in lingua originale con i sottotitoli, nella traduzione si perde molto perché viene inquinata la purezza del film che a volte può essere espressa attraverso dettagli apparentemente insignificanti. E chi meglio di Hitchcock sa dosare i particolari nei film?
L’ombra del dubbio è considerato uno dei suoi lavori più riusciti, ebbe un discreto successo di pubblico ma soprattutto di critica.

Quando parlai de L’Atalante (1934) dissi che bisognava contestualizzare il film nel suo periodo storico, qui bisogna fare la medesima operazione. È necessario calarsi nella middle-class americana degli anni quaranta, nello stato democratico, ricco, bello e forte, ma anche con un lato oscuro fatto di gangsterismo o il razzismo del Ku Klux Klan. Ecco per me Santa Rosa è l’America in miniatura, una ridente città che però nasconde del marcio dentro. E non mi riferisco allo zio Charlie, sarebbe banale, ma al padre ed al suo amico che si trastullano a vicenda ipotizzando possibili attentati omicidi l’uno nei confronti dell’altro. Quindi le parole di Charlie fanno da monito non solo alla nipote ma anche allo spettatore: ”Il mondo è un inferno, un porcile ripugnante.” Forse tornando a Santa Rosa l’assassino di vedove sperava di trovare la pace nel suo nido famigliare, ma ben presto si accorge che la sua diversità non potrà mai essere compresa e tanto meno assolta.
La sceneggiatura è curata da Thornton Wilder con il quale Htich ha lavorato anche a La donna che visse due volte (1958) in cui aleggia la stessa atmosfera funerea e fatale di questo dramma; i dialoghi disegnano bene i vari personaggi, e spicca una saccente bambina che riporterebbe ad un “odio” del Maestro verso i bambini in generale.

A conti fatti però L’ombra del dubbio mi è piaciuto meno di altre sue opere, manca di quel pathos che coinvolge come nel sublime Nodo alla gola (1948) o in La finestra sul cortile (1954), ho riscontrato una certa freddezza, forse voluta, forse no, che mi ha allontanato dalla storia senza catturarmi.
Ma è un film di Hitchcock e quindi sono sicuro di essermi perso tanti di quei particolari che solo con la metà di essi potrei ribaltare il mio giudizio.

giovedì 3 luglio 2008

The Machine Girl

Se io fossi un regista asiatico ci penserei due volte a girare una pellicola che ha come tema centrale la vendetta. Dopo la trilogia di Park Chan-Wook e Kill Bill, che indirettamente è collegato all’estremo oriente, non è facile riuscire a stupire.
Noboru Iguchi per me non ci ha neanche provato, ha preso una trama da videogioco, ci ha aggiunto litri di sangue, un paio di scolaretti giapponesi, un po’ di Yakuza, qualche citazione (gradita), e basta. Qua il sentimento di vendetta nutrito da Ami non ha alcun spessore psicologico, e questo potrebbe andare benissimo, in fondo neanche in Kill Bill c’è una introspezione accuratissima dei vari personaggi, però tutto il resto è una figata.
In The Machine Girl l’aspetto più importante, quello che riguarda l’azione, è fatto davvero male. I combattimenti a mani nude sono ridicoli, gli attori corrono come nei cartoni animati ed hanno espressioni da manga. Anche qui potrei dire che ci starebbe, in Riki-Oh (1991) accade la stessa cosa, ma quello si capisce che è una gogliardata, Iguchi invece resta in un territorio ibrido; se l’atmosfera da chambara-movie splatteroso è figlia della poca esperienza mi può andare bene, ma se era voluta non mi convince più di tanto perché non gli è riuscita per niente. Ovviamente la sceneggiatura non esiste, i nemici aumentano di pericolosità insieme al tasso di gore col procedere della storia fino ad arrivare al boss finale della Yakuza che in confronto ai mafiosi di Kitano o di Miike sembrano dei rincoglioniti, e a tal proposito il figlio del capo che dovrebbe essere il più cazzuto di tutti sembra uscito dall’asilo da quanto è giovane.

Di positivo c’è l’altissimo livello di splatter che si esplica in fontane emoglobiniche di rara intensità ma che comunque non sono nulla di nuovo. Purtroppo il livello di certi SFX è basso per gli standard dei nostri anni, per esempio la testa che bolle nell’olio è palesemente di gomma (non è che pretendevo una testa vera eh!), oppure il viso chiodato del mafioso, il quale non viene mai inquadrato con un piano americano o con una mezza figura, ma sempre con un primissimo piano della testa-fantoccio in pieno stile trash-horror anni '70. E poi i ninja sono vestiti con delle felpe col cappuccio e basta (sigh), e i loro genitori decisi a vendicarli come dei Power Rangers (doppio sigh).
Però devo ammettere che quando Ami prende in mano, anzi in braccio, la mitragliatrice è una goduria perché scatena il finimondo neanche fosse Jhon Rambo (2008). Sarebbe curioso sapere se Rodriguez si è ispirato ad Iguchi per la tipa con la gamba-fucile nel suo Planet Terror (2007), oppure il contrario, fermo restando che tutti sono debitori all’Ash di Sam Raimi.

Ho letto una definizione in rete di shakespeariana memoria che calza a pennello per The Machine Girl: “molto rumore per nulla”. A parte il reggiseno perforante è tutta roba già vista e stravista e per di più girata malino. Allora consiglio spassionatamente Meatball Machine (2005), molto più ben fatto e intrigante di questo.

martedì 1 luglio 2008

L'uomo che cambiò la Storia

Non è stato baffetto Adolf e nemmeno baffon Josif.
Certo, di casini loro ne hanno fatti parecchi, uno ti ammazzava se la pensavi in maniera diversa, l’altro ti gasava se eri diverso, punto. Che poi me li immagino nei loro palazzi, con i soldatini e i carri armati sulle cartine geografiche, giocavano a Risiko, ma vallo a dire ai cinquanta milioni di morti…

Non è stato zio Benito.
Poveretto a me ha sempre fatto compassione, tutto impettito davanti alle sue adunate oceaniche, e quel modo di parlare così… così a scatti. I nostalgici dicono che il suo più grande errore è stato quello di stringere amicizie poco raccomandabili, io dico che il più grande errore è stato quello del Re che non ha avuto le palle di fermarlo.

Non è stato il Mahatma.
Che Churchill definiva “il piccolo agitatore in camicia di notte”, il buon Wiston avrebbe fatto meglio a guardarsi in casa propria.

Non è stato quel sigaro di Fidel.
Oh all’inizio sembrava andare tutto bene eh! La sua rivoluzione faceva proseliti, in più c’era quell’Ernesto che gli dava una mano. Poi ha deciso di fare comunella con i sovietici e subito un bel paio di missili erano già puntati verso gli Stati Uniti. Ciao ciao amici americani.

Non è stato Bettino e neanche Giulio.
Dicevano di volersi staccare dai condizionamenti ideologici e inventare una politica pura, finalizzata a governare la realtà senza riferimenti ideali… MpfffffahahahaAHAHAHAHAAH. C’è poco da ridere comunque.

Non è stato Michail Sergeevic.
Ci ha provato lui, è andato dagli americani col calumet della pace ed ha strappato una riduzione degli arsenali. Bravo. Evidentemente i vegliardi dell’apparato comunista non la pensavano così, e neanche El’cin, soprattutto El’cin.

Non è stato Saddam.
Figuriamoci, lui voleva solo un po’ di petrolio, solo un pochetto, ma mica tanto eh! E invece subito Mr. Cespuglio senior ha messo in campo l’artiglieria pesante e in un mese neanche ha fatto piazza pulita. Sì ma poi non diteglielo che in Iraq non è cambiato nulla, è un segreto, shhhh…

Non è stato Osama Bin.
Ma dài, come può un cavernicolo retrogrado (La venticinquesima ora insegna) con la barba zozza riuscire a fare tutto il macello che ha fatto? Forza Bin dicci chi c’è dietro di te! Anzi no, continua a farci credere che sei quello che sei, il mondo ha bisogno di qualcuno con cui prendersela, e se è brutto e sporco è ancora meglio.

Nessuno di questi personaggi ha cambiato la Storia, o meglio ognuno ha messo un pezzetto nell’enorme mosaico.
Ma tutti loro, e anche noi, in qualche modo, siamo “figli” di un ragazzetto nato a Obljaj che il 28 giugno del 1914 decise che era giunto il momento di cambiare il Mondo. Da quel giorno niente è stato più come prima, il suo nome è rimasto nei libri ma non nella memoria.
Il suo nome era Gavrilo Princip.

Deliri post-esame...