mercoledì 30 ottobre 2019

The Woman with the 5 Elephants

La sinossi di Die Frau mit den 5 Elefanten (2009) è presto detta: ritratto di Svetlana Geier (1923-2010), una donna di origini ucraine che una volta trasferitasi in Germania ha tradotto per oltre cinquant’anni testi della letteratura russa in tedesco, da Tolstoj a Bulgakov per arrivare all’ultimo compagno di viaggio: Fëdor Michajlovič Dostoevskij, l’autore dei cinque elefanti, ovvero cinque corposi romanzi, che Svetlana in una scena del film osserva con un misto tra devozione e rispetto (foto in calce). Ma nel suo dispiegarsi il documentario sa andare ben al di là della questione Geier = traduttrice, e non poteva essere altrimenti perché questa donna porta sulla schiena ingobbita il peso e l’orrore della Storia, delle politiche staliniste, di Babi Yar, delle mitragliatrici della Wehrmacht, e ciò che Vadim Jendreyko riesce a cogliere è comunque una lucidità di pensiero incredibile, una raffinatezza e una dignità che rendono Svetlana una persona bellissima, e non solo perché colta o perché ha dedicato tutta la sua vita alla cultura, ma anche e soprattutto perché amorevolmente fragile come tutti gli esseri umani che sanno pensare, e allora si scorge nella lucentezza del suo sguardo ottuagenario una tensione mai sopita che il regista cerca di perforare con domande scomode che scendono giù nella memoria, e Svetlana non sa che dire, era a conoscenza del fatto che quelli erano dei criminali ma… a volte le cose succedono e non si riesce a fermarle.

Jendreyko è “fortunato” perché durante le riprese del suo film durate un paio di anni sono successi due eventi molto importanti nella vita della protagonista, l’infortunio sul lavoro del figlio che lo porterà alla morte e l’invito della scuola di Kiev che la farà tornare nella terra natia dopo più di mezzo secolo, sono due momenti distinti ma interconessi dalle pieghe dello spazio-tempo sicché il figlio da accudire diventa il padre malato nella dacia e il viaggio in Ucraina, una porzione di cinema molto intensa carica di significati personali e politici, riporta Svetlana alla ragazzina che era (“in quel museo ho visto per la prima volta un quadro”) riappacificandola con una parte di sé che vagava ancora in un limbo. Credo che Die Frau mit den 5 Elefanten sia un titolo da guardare con rispetto non per le sue qualità artistiche che rientrano nell’ordinario quanto per ciò che nell’estrema semplicità riesce a trasmettere, che è una lezione di vita commovente, un insegnamento che si propaga dolce in più direzioni: è probabilmente il film che ogni traduttore dovrebbe vedere (il modo in cui Svetlana spiega come deve essere fatta una traduzione è pura poesia) al pari di ogni lettore per provare a capire quanto lavoro e quanta fatica c’è dietro il libro tradotto che tengono in mano, ed è anche un film che andrebbe visto da chiunque perché è un balsamo per il cuore, perché ci vedi dentro tua nonna che ha fatto la guerra anche se non l’hai conosciuta, perché la cultura è resistenza, perché tutti vorremmo conoscere nell’arco della nostra esistenza una signora come Svetlana Geier.

Abbiamo continuato a sentirci anche dopo la fine del film. Ha partecipato a una prima al festival Visions du Réel di Nyon e ad altre proiezioni. Poi pian piano, nel 2010, è diventata sempre più debole e ha trascorso gli ultimi due mesi a letto. Se ne è andata la notte tra il 7 e l’8 di novembre. È stata una fine senza sofferenze acute. Come era suo desiderio, è morta nella sua casa, con sua figlia accanto, tra le sue cose, la sua tazza di tè, i suoi libri. Pacificamente.

(Vadim Jendreyko da qui)

lunedì 21 ottobre 2019

Tale in the Darkness

In questi lunghi anni di ossessionanti visioni abbiamo visto sugli schermi provenienti da un po’ tutte le zone del mondo un numero smisurato di anime solitarie ritratte nella loro quotidiana mestizia, genti dell’ovest, dell’est, vicine e lontane, da ovunque ci è stata data l’opportunità di assistere ai tormenti di persone diverse da noi solo in superficie, pertanto la nostra attitudine a recepire un tale catalogo di sentimenti si è un po’ avvezza a questo genere di proposte, ne consegue che, se un regista ha in testa di incentrare il proprio film su una donna sola con tutto quello che ne può conseguire, allora il regista in questione dovrà lavorare sodo per riuscire a sorprendere degli scafati spettatori quali siamo. L’autore che oggi si porta ad esempio è Nikolay Khomeriki che avevamo lasciato alle atmosfere retrofantascientifiche di Nine Seven Seven (2006), e, per riallacciarmi subito al discorso introduttivo, con Skazka pro temnotu (2009) l’inaspettato ahinoi non fa alcuna irruzione, il racconto è imbastito in modo che sia chiaro, dal principio alla conclusione, di quanto Gelya (una brava Alisa Khazanova che guarda alla protettrice di ogni psico-frigida filmica, l’Isabelle Huppert de La pianista, 2001) risulti essere un’isola irraggiungibile da qualunque altro simile, e allora via di piccoli blocchi praticamente a se stanti dove la poliziotta pur cercando di aprirsi agli altri non riesce ad emergere dalla lunga notte in cui è prigioniera (forse fin da bambina dato il dialogo con i suoi invisibili genitori verso il finale), ma a parte il possibile lirismo che l’immagine di un’oscurità densa e opprimente può trasmettere, ciò che rimane sono una serie di scenette dal discutibile valore.

Di recente sulla nostra strada è passato un altro film proveniente dalla Grande Madre Russia dal titolo Twilight Portrait (2011) che potrebbe anche dare del tu Tale in the Darkness, medesime sono infatti le mire di illustrarci una condizione femminile alla ricerca di un qualcosa che non si riesce a trovare e parimenti non così dissimile è il contesto in cui si muove la storia (desolazione urbana e sociale, istituzioni non così ligie al dovere), il però che separa le due opere è una grossa diga che per fortuna riabilita in parte la pellicola di Khomeriki; cruciale è il taglio fornito: la Nikonova drammatizza fino alla tragedia ricercando un realismo che vede una sceneggiatura rigurgitante di fastidiose forzature, cosa che invece non accade in Skazka pro temnotu poiché al regista, diversamente dalla collega, non preme troppo una contiguità logica dei fatti, sicché il fare grottesco, slabbrato e un filo paradossale schioda l’esposizione dai letali paletti della coerenza, non ci saranno memorabili esplorazioni filosofiche sullo stato umano nel contemporaneo, ma almeno tira quell’aria a-tipica da foreign movie che sa solleticare il sesto senso cinefilo. Quindi sì, la vena scentrata di Khomeriki, quasi un canone per non pochi esemplari della recente cinematografia post-sovietica, medica la latitanza di un dispositivo atto a dare spessore al comparto “significati”, è profumo di weirdness, profumo di casa.