Il primo lungometraggio di Park Chan-wook dopo Thirst (2009), nonché il primo in terra americana, ha una genesi produttiva molto simile ad un’altra opera a stelle e strisce firmata da un sudcoreano. Anche Stoker (2013), come The Last Stand (2013) di Kim Jee-woon, sorge dalla scrittura di una penna alle prime armi, quella dell’attore Wentworth Miller che coadiuvato da Erin Cressida Wilson (autrice del bel Secretary, 2002) ha ideato la sceneggiatura finita poi nella black list del 2010, ossia la classifica degli script più interessanti non ancora incisi su pellicola dagli ingranaggi hollywoodiani. Che cosa abbia spinto l’ammirato Park ad accettare la regia di un progetto non del tutto suo, lui che al contrario aveva sempre messo lo zampino nella scrittura dei propri lavori, è una questione che pensando male si adombra di motivazioni poco nobili per chi come il sottoscritto aborre la massificazione del cinema statunitense; c’è probabilmente il denaro dietro questa scelta, quello dei fratelli Scott, e c’è il prestigio di poter lavorare con una stella come Nicole Kidman o con un maestro come Clint Mansell, occasioni che il regista di Mr. Vendetta (2002) non si è voluto evidentemente lasciar sfuggire per poter così espandere la propria notorietà anche oltreoceano. Tutto lecito e tutto comprensibile, certo che per noi eterni nostalgici oldboyani l’idea di un Park ingabbiato nei triti e ritriti modelli americani a priori ci spaventava parecchio.
Rispetto a The Last Stand il film sotto esame si avvale di una dignità artistica ben superiore, qui è rintracciabile un’intraprendenza formale che devia dalla maggior parte dei thriller provenienti dalla California. Beninteso, a livello tramico non vi è nulla che non sia già stato raccontato altrove, inoltre, come suggerisce Wikipedia (link), la storia ha un pesante debito nei confronti de L’ombra del dubbio (1943) e in generale con tutto il cinema di Hitchcock; a voler insistere anche altri ingredienti non appagano completamente la sete spettatoriale, e non sono soltanto i vari ed eventuali buchi razionali ad indispettire, si tratta piuttosto di una serie di situazioni “già viste” che non stupiscono particolarmente, si prenda la figura della madre, ennesima riccona povera dentro, o gli atti di bullismo nei riguardi della solita ragazzina introversa, senza dimenticare la ripresa di drammi infantili che muovono gli orrori del presente. Però, al di là di quanto appena detto e anche di altro non detto, Park e il fido collaboratore Chung Chung-hoon ci mettono una gradita pezza sul piano dell’estetica e così anche una visione impostata su binari prestabiliti sa contenere guizzi d’autore.
La tecnica indiscussa del coreano trova espressione in accorgimenti che meritano attenzione e che in taluni casi ravvivano questo intingolo consanguineo con echi di morbosità (una morbosità che però può scuotere al massimo solo chi è completamente all’oscuro di ciò che è davvero morboso in ambito cinematografico). Allora un flashback come quello che India (ri)vive sotto la doccia dà una scossa narrativa non da poco, al pari del montaggio alternato che immortala l’omicidio della zietta. E non solo: l’atmosfera sa essere proteiforme, horror e oltre: si lambisce un’inquietudine palpabile, si cavalca la strada della formazione attraverso un registro quasi burtoniano tra il dark e il fantasy, si impreziosisce con trovate intriganti (quella bellissima dei capelli che dolcemente diventano spighe di grano), ci si affida a movimenti di camera fluidi come liquido che penetra nei pertugi (notevole l’insinuarsi della mdp nel confronto tra zio-nipote e sceriffo). Insomma, oggettivamente Park dai tempi della rinomata trilogia non ha più regalato prove altrettanto imponenti, il suo cinema sembra sempre in attesa di una definitiva conferma, sia che giri in patria che all’estero, ma è anche vero che in ogni esemplare da lui partorito ha dimostrato che la stoffa e il talento sono prerogative insite nel fare cinema che lo caratterizza e che non possono essere intrappolate, nemmeno dagli yankee.