venerdì 28 giugno 2013

Stoker

Il primo lungometraggio di Park Chan-wook dopo Thirst (2009), nonché il primo in terra americana, ha una genesi produttiva molto simile ad un’altra opera a stelle e strisce firmata da un sudcoreano. Anche Stoker (2013), come The Last Stand (2013) di Kim Jee-woon, sorge dalla scrittura di una penna alle prime armi, quella dell’attore Wentworth Miller che coadiuvato da Erin Cressida Wilson (autrice del bel Secretary, 2002) ha ideato la sceneggiatura finita poi nella black list del 2010, ossia la classifica degli script più interessanti non ancora incisi su pellicola dagli ingranaggi hollywoodiani. Che cosa abbia spinto l’ammirato Park ad accettare la regia di un progetto non del tutto suo, lui che al contrario aveva sempre messo lo zampino nella scrittura dei propri lavori, è una questione che pensando male si adombra di motivazioni poco nobili per chi come il sottoscritto aborre la massificazione del cinema statunitense; c’è probabilmente il denaro dietro questa scelta, quello dei fratelli Scott, e c’è il prestigio di poter lavorare con una stella come Nicole Kidman o con un maestro come Clint Mansell, occasioni che il regista di Mr. Vendetta (2002) non si è voluto evidentemente lasciar sfuggire per poter così espandere la propria notorietà anche oltreoceano. Tutto lecito e tutto comprensibile, certo che per noi eterni nostalgici oldboyani l’idea di un Park ingabbiato nei triti e ritriti modelli americani a priori ci spaventava parecchio.

Rispetto a The Last Stand il film sotto esame si avvale di una dignità artistica ben superiore, qui è rintracciabile un’intraprendenza formale che devia dalla maggior parte dei thriller provenienti dalla California. Beninteso, a livello tramico non vi è nulla che non sia già stato raccontato altrove, inoltre, come suggerisce Wikipedia (link), la storia ha un pesante debito nei confronti de L’ombra del dubbio (1943) e in generale con tutto il cinema di Hitchcock; a voler insistere anche altri ingredienti non appagano completamente la sete spettatoriale, e non sono soltanto i vari ed eventuali buchi razionali ad indispettire, si tratta piuttosto di una serie di situazioni “già viste” che non stupiscono particolarmente, si prenda la figura della madre, ennesima riccona povera dentro, o gli atti di bullismo nei riguardi della solita ragazzina introversa, senza dimenticare la ripresa di drammi infantili che muovono gli orrori del presente. Però, al di là di quanto appena detto e anche di altro non detto, Park e il fido collaboratore Chung Chung-hoon ci mettono una gradita pezza sul piano dell’estetica e così anche una visione impostata su binari prestabiliti sa contenere guizzi d’autore.

La tecnica indiscussa del coreano trova espressione in accorgimenti che meritano attenzione e che in taluni casi ravvivano questo intingolo consanguineo con echi di morbosità (una morbosità che però può scuotere  al massimo solo chi è completamente all’oscuro di ciò che è davvero morboso in ambito cinematografico). Allora un flashback come quello che India (ri)vive sotto la doccia dà una scossa narrativa non da poco, al pari del montaggio alternato che immortala l’omicidio della zietta. E non solo: l’atmosfera sa essere proteiforme, horror e oltre: si lambisce un’inquietudine palpabile, si cavalca la strada della formazione attraverso un registro quasi burtoniano tra il dark e il fantasy, si impreziosisce con trovate intriganti (quella bellissima dei capelli che dolcemente diventano spighe di grano), ci si affida a movimenti di camera fluidi come liquido che penetra nei pertugi (notevole l’insinuarsi della mdp nel confronto tra zio-nipote e sceriffo). Insomma, oggettivamente Park dai tempi della rinomata trilogia non ha più regalato prove altrettanto imponenti, il suo cinema sembra sempre in attesa di una definitiva conferma, sia che giri in patria che all’estero, ma è anche vero che in ogni esemplare da lui partorito ha dimostrato che la stoffa e il talento sono prerogative insite nel fare cinema che lo caratterizza e che non possono essere intrappolate, nemmeno dagli yankee.

martedì 25 giugno 2013

Octubre

Esempio di cinema intimo, asciutto al punto giusto, che non alza mai i toni in favore di un andamento sottotraccia venato però da un’ironia preziosa, che pizzica il tragicomico nell’inquadrare con pochi (ma sufficienti) dati il vivere di Clemente, strozzino che di punto in bianco si trova ad avere grattacapi ben più importanti dei prestiti non restituiti: una culla con dentro un neonato è un discreto problema, soprattutto se compare dal nulla sul tavolo di casa.
Il film, che rappresenta l’esordio dei fratelli Vega Vidal, prima di fornire un ritratto dell’uomo, parla allo spettatore del Perù, e gli dice con leggerezza che la situazione non è propriamente rosea perché il pianeta denaro muove innumerevoli satelliti, tutti poveri cristi ma soprattutto tutti poveri in canna (gli abiti, le abitazioni, le automobili: sembra che in Perù siano cinquant’anni indietro rispetto all’Europa!). E Clemente è parte integrante dell’ingranaggio monetario, dipendente dai soldi non solo per il “lavoro” che fa, ma anche perché è grazie ad essi che si concede l’unico strappo alla regola di un’esistenza austera (le puntatine al bordello). La pellicola infilza questo sostrato con un dardo ben acuminato, una variabile propedeutica a tanti piccoli smottamenti che, come da impostazione, agiscono sotto la superficie e danno il la a situazioni intriganti che i due registi gestiscono più che bene.

Il meccanismo che elimina la solitudine dal vocabolario di Clemente è il muro portante del film e, almeno per il sottoscritto, anche il meglio realizzato, questo perché è sempre bello vedere delle persone nei personaggi, e in Octubre (2010) tutti coloro che calcano la scena (anche le comparse) fanno armoniosamente parte dell’ecosistema filmico. Non ci sono stonature quindi, e nello spartito generale spicca l’interpretazione super misurata di Bruno Odar che conferisce una burbera bonarietà a Clemente, da qui scattano le varie dinamiche con le sempre più numerose presenze all’interno dell’appartamento spartano in un saporito susseguirsi di scenette che hanno proprio quei tempi e quei modi giusti; summa del ridicolo il compleanno del protagonista, una di quelle scene che inevitabilmente finiscono sulla locandina.

Evidentemente esiste una sottaciuta corrente latina che attraverso un cinema essenziale, privo di ornamenti superflui, descrive le debolezze dell’anima. Si tratta di pellicole veramente ridotte all’osso tra cui possiamo citare Whisky (2004), La influencia (2007), Leap Year (2010) e in parte La mosquitera (2010), modelli di storie accomunate da uno stuolo di caratteristiche (l’insistenza nel fornire il più possibile una descrizione dell’uomo immerso nella sua quotidianità; la meticolosa raffigurazione dell’ambiente casalingo; l’emarginazione emotiva, sentimentale e personale dei singoli soggetti; le increspature malinconiche che erigono un ponte empatico con chi guarda).
Octubre si aggiunge con discrezione all’elenco, lo fa senza far rumore, senza che ci si accorga della sua presenza. Quando la semplicità riesce ad arrivare al cuore delle cose.

giovedì 20 giugno 2013

Toyland

Lo scenario è risaputo: siamo nella Germania dei tempi bui, dentro le case ebree la paura convive insieme alla rassegnazione, praticamente si attende solo il terribile momento della deportazione: ma come spiegare tutto questo ad un bambino?

Jochen Alexander Freydank, regista e produttore molto più vicino al piccolo schermo che a quello grande, contrappone in Spielzeugland (2007) due famiglie pressoché identiche accomunate, per quel che possiamo vedere, dalla passione per la musica che riversano sui propri figlioletti, ma divise dalla “razza” di appartenenza, per cui una ha il destino segnato mentre l’altra (priva di una componente maschile) non può che assistere inerte al compiersi di un assurdo volere. Il pepe è messo dal piccolo Heinrich la cui madre, ovviamente impossibilitata a spiegargli la realtà dei fatti, ha inventato per lui una storiella che vede il confino semitico come una gita in un mondo di giochi.
Di tutto questo Freydank è ordinato espositore ed anche qualcosa di più: invece di narrare cronachisticamente scompagina la temporalità del corto alter(n)ando la sequenzialità degli eventi; ad un livello dove la mamma cerca il proprio figlio smarrito, si intervallano flash esplicativi di un passato recente, tale costruzione rappresenta il celeberrimo “niente di che” ma ravviva, dà un’andatura che una volta assimilata prende fino ad una scena madre non priva di debolezze (possibile che gli inflessibili poliziotti accettino ciò che accade senza alcuna documentazione?), ma tutto sommato ben oliata e capace di appiccare una vampata benignesca (il riferimento è esclusivamente a La vita è bella, 1997) nel cuore dello spettatore. Tenendo conto poi del finale che si riaggancia all’inizio, non stupisce troppo l’incoronamento da parte degli americani che hanno premiato Freydank con l’Oscar, niente di clamorosamente immeritato, tuttavia il cinefilo scafato farà più fatica a lasciarsi andare in spropositati encomi.

martedì 18 giugno 2013

The Silence

Thrillerone teutonico diretto nel 2010 da un semi debuttante svizzero, tale Baran bo Odar, che imposta il suo lavoro in maniera consueta, forse anche troppo: nel prologo, ambientato nel 1986, ecco la cronaca dell’omicidio di una bambina, stacco e una scritta ci dice che sono passati ventitre anni da quel giorno infausto, breve spaccato famigliare di un’altra ragazzina che odora di possibile vittima, carrellata sui protagonisti che calcheranno la scena, ritorno sulla biondina in bici, stesso campo di granoturco, stessa dolorosa fine.

I segni di una forte influenza a livello di plot da parte del cinema americano sono evidenti, ai nastri di partenza il film si presenta infatti come molti altri suoi simili a stelle e strisce, la critica però nel soppesare la pellicola di Odar lo ha paragonato ad un film che a prescindere dalla nazionalità yankee è stato qualcosa di diverso nel panorama dei serial killer movie: Zodiac (2007). In effetti quanto viene proposto dal giovane regista possiede delle velleità introspettive che scansano le normali procedure investigative, e ciò lo si apprende dai profili dei personaggi che sono “dramma-strutturati”, calibrati nella dimensione filmica ad avere un polo d’attrazione personale nei confronti dell’omicidio in esame, si pensi ad una figura in primo piano come il commissario vedovo e alla sua impossibilità di superare il lutto, o ad un’altra sullo sfondo come la poliziotta incinta che con la sua presenza segna una maternità da venire contro una, anzi due, brutalmente annullate. Questa modellazione dei ruoli risulta però alla lunga marchiata dall’esasperazione e dalla coercizione sceneggiaturiale, elementi che ingigantiscono la sfera intima e che obbligano i soggetti ad interazioni improbabili (il pedofilo latente – si fa per dire – che va a far visita alla madre dell’assassinata non è di certo una trovata da applausi); va bene allontanarsi dalle cartelle dell’indagine e dalle procedure di inchiesta, va un po’ meno bene però se quest’ultime vengono sostituite da un’esplorazione degli stati emotivi che, almeno per il sottoscritto, sa molto di costruzione a tavolino, sia nella caratterizzazione dei singoli che nell’intreccio globale.
Si può tirare nel mezzo Fincher solo per lo stesso punto (morto) a cui giunge questa polizia, ma appaiare i due film è mossa un tantino ardita: qui manca uno spartito drammatico realmente compatto e soprattutto latitano le conseguenze della caccia all’assassino, non c’è l’evoluzione dei personaggi nel rapportarsi con la preda perché la loro natura preconfezionata glielo impedisce.

Ritornando al discorso del cinema americano (perché ammettiamolo, Zodiac non sembra nemmeno battere quella bandiera) si può dire che il taglio europeo di Odar evita alla pellicola di precipitare nel telefilmico dando quindi minor risalto alla spettacolarizzazione del crimine. Il regista offre uno studio di inquadrature particolareggiato, andandoci giù pesante con gru e bracci meccanici che pongono la lente dell’obiettivo perpendicolare al suolo (la locandina è lì a ripeterlo), inoltre scandisce il passare dei giorni con delle panoramiche naturalistiche di discreto impatto. Sia queste che le riprese dall’alto imprimono un certo grado di suggestione al film, un respiro più ampio che in un certo qual modo lo nobilita, anche se l’argomento “suggestione” in ambito thriller ha toccato recentemente vette ben più alte, è voler fare i pignoli perché Ceylan è di altra caratura, ma C’era una volta in Anatolia (2011) sa essere molto più incisivo nel campo della fascinazione. Comunque, la pulizia sì e no geometrica del tutto non è da disdegnare, al pari di alcuni giochetti sonori proposti non di rado lungo lo snocciolamento della trama.

Gli attori d’alto livello, ma a cui, come visto, non è stata fornita una profondità convincente, e uno stile perfettibile con però sofisticature degne di nota, lasciano Das letzte Schweigen in un limbo di non completo appagamento, il che non ha nulla a che vedere con la mancata risoluzione del caso da parte degli inquirenti, bensì nella ruggine dei meccanismi individuali che sfaccettano la vicenda.
È pur sempre un esordio e Odar sta già preparando la riscossa grazie ad un bel po’ di dollari: sarà un bene?

giovedì 13 giugno 2013

Sleeping Sickness

La malattia a cui allude il titolo altresì nominata tripanosomiasi africana umana (malattia del sonno) è una magagna sanitaria così grave da essere considerata alla stregua dell’AIDS e della malaria.
A pensare però che il film di Ulrich Köhler (è il marito di Maren Ade, autrice di Everyone Else [2009], qui produttrice) sia uno scontato resoconto sulle missioni umanitarie in Africa si cade in errore perché al regista tedesco non interessa affatto illustrare le contromisure della scienza progredita contro le malefatte della mosca tse-tse, ciò che più gli preme è scandagliare la tessitura dei rapporti sentimentali concentrandosi nella prima mezz’ora sul dottor Ebbo Velten la cui relazione con la moglie, a giudicare da una vecchia lettera riletta alla figlia, è sempre stata segnata dalla lontananza. E se è vero che come diceva Fossati che la distanza è atlantica (in questo caso… mediterranea), al camice di dottore Ebbo opta per i vestiti civili (perfino africani!), e invece di interessarsi al progetto medico preferisce impelagarsi in affari che non lo porteranno da nessuna parte. Ma soprattutto, di fronte al dilemma del bivio, sceglie di stare lì, sceglie una donna (la cameriera), sceglie l’Africa.

Köhler non si ferma all’esposizione di queste schermaglie amorose, con l’introduzione dell’altro dottore, Alex Nzila, il nocciolo della pellicola sale a galla e così diventa lampante che il vero legame su cui bisogna concentrarsi non è quello tra le persone, bensì tra le singole persone e il continente nero. Attraverso una discreta valorizzazione della geografia (i tragitti lungo le strade dissestate) Köhler è bravo a portare in primo piano i differenti nessi tra l’Africa e i due dottori. Anche con un pizzico di ironia vengono rovesciati dei preconcetti diffusi, e quindi se Ebbo, uomo caucasico in tutto e per tutto è ormai completamente assorbito dalla realtà del luogo, Nzila, a prescindere dal colore della sua pelle, è uomo europeo (francese da una generazione come ripeterà) che fatica a penetrare nel vissuto camerunense (dal prezzo delle sigarette alla pipì fatta nella bottiglia per paura di uscire). Il film crea questo dialogo proficuo mantenendo comunque le distanze dalla sfera personale dei protagonisti, non c’è invadenza nel raccontare le loro vicissitudini, resta solo un po’ di compassione, di solito rivolta a bimbi con la pancia gonfia e gli occhi flagellati dagli insetti, mentre qui diretta a due scienziati, due occidentali, due bianchi: anche se uno non lo è.

Attraente il finale: immersione nella giungla, buio scalfito dai raggi delle torce, mdp che sfrigola ad ogni minimo movimento tra le frasche. A parte un piccolo appunto (come è possibile che Nzila riesca ad addormentarsi nel cuore della notte in una foresta equatoriale?), dalle ultime battute si svela quella parte dell’Africa che ancora non era stata toccata, quella fatta di feticci e di credenze, e dal nulla un ippopotamo che quatto quatto si inabissa sotto il pelo dell’acqua.

domenica 9 giugno 2013

Beket

Girotondo, giro attorno al mondo (1998) ha gettato le basi per l’edificazione di un modello di cinema (italiano) che non conosce compromessi, o tutto (tutto, fino all’escatologia) o niente (niente, la vacuità del vuoto), bianco o nero, come la fotografia del tunisino Tarek Ben Abdallah di questo Beket (2008), film che vede il ritorno al lungometraggio di Manuli dopo dieci anni e che prosegue il filo del grottesco iniziato con l’opera prima senza concedere alcunché allo spettatore: due uomini, Freak e Jajà, un luogo di frontiera (una Sardegna riarsa), la ricerca di (un) dio, delle maschere lungo il cammino; Beket è tutto qui, pellicola poverissima dal punto di vista della produzione ma preziosa per il suo essere così sotterranea, orgogliosamente altra, un’apparizione su celluloide che appallottola le logiche tramiche per cestinarle seduta stante (l’autobus sospeso a mezz’aria) e proseguire attraverso quadri statici, insensati (eppure dietro ad ogni linea di dialogo, anche la più strampalata, la percezione è che quello di Manuli non sia affatto uno scarabocchio ma un disegno mirato ad esacerbare la miseria dell’esistenza) ed episodici con situazioni anche sconnesse dall’invisibile racconto principale (si vedano le parentesi con l’Adamo dj e l’Eva lesbica). 

Ne esce fuori un atlante di autoironica desolazione, Manuli inventa (ma anche ricicla e cita) un cinema d’epica slavata, che si burla dei Santi (non per niente il titolo è una sgrammaticatura) e dei poveracci in terra, ritraendoli nel loro errare inconsapevole di essere loop senza uscita di sicurezza, due ladroni condannati ad essere crocefissi per l’eternità.

sabato 1 giugno 2013

Just the Wind

Abbandonato il cinema mite di Womb (2010) che poco si confaceva alla sua autorialità, Benedek “Bence” Fliegauf riparte dalla nazione d’appartenenza traendo ispirazione da brutti fatti di cronaca che videro tra il 2008 e il 2009 l’uccisione di intere famiglie zigane nella campagna ungherese.
Con Csak a szél (2012) il regista magiaro fornisce l’ennesima conferma riguardante la capacità che ha di attraversare gli stili e le forme, rimodellandosi e rimettendosi in gioco film dopo film; Just the Wind segna un passaggio (più probabile una transizione) in quel cinema del reale proprio di Brillante Mendoza e di molti altri cineasti emergenti che non conosce il concetto di geometria preferendo optare per una via di trasmissione fatta di pedinamenti, irregolarità, PP strettissimi, improvvisi strappi e inaspettate stasi che seguono lievemente il ritmo cardiaco degli attori (molti dei quali, ovviamente, non professionisti), e Fliegauf si adopera efficacemente nell’imbastire tali frequenze che fanno il loro dovere: il territorio che è teatro della storia si avverte davvero come una terra dimenticata anche dalla più inutile entità ultraterrena, di riflesso chi popola questa zona franca è abbandonato a se stesso e alla legge del singolo. Delle varie istantanee di degrado non vi è niente che non sia già stato mostrato altrove, anzi, Fliegauf è perfino pudico nell’illustrare gli intuibili orrori della collettività sotto esame, ciò non intacca ad ogni modo la grevità dell’aria che tira corroborata visivamente da riprese che spesso scivolano nel buio naturale.

È un film ferino, selvatico, che riacciuffa per sommi capi la pluralità narrativa degli esordi concentrandosi su tre singoli soggetti appartenenti alla stessa famiglia. Se le vicende della madre e della figlia scorrono alternativamente evidenziando episodi di degenerazione umana (significativo il passaggio della mamma nei pressi di un bar in cui si suggerisce, a seguito della rissa, di come i nervi siano tesi per motivi di matrice razzista), l’attenzione va focalizzata sul ragazzino e sul suo vagabondaggio tra detriti e rifiuti. Fliegauf segue il figlio e si serve di lui per esplicitare alcune questioni indispensabili alla comprensione del film (si pensi al dialogo origliato tra i due poliziotti e all’incontro con l’altro ragazzo del posto dentro al bunker), lo rende compassionevole, lui assolutamente libero, facendogli seppellire il maiale morto simbolo di una strage, di un’ombra incombente che il sogno del Canada (a quanto pare rimandato da tempo) è incapace di rischiarare, e soprattutto lo rende edotto della condizione in cui vive e del probabile destino che gli toccherà (basta un’immagine per tutto ciò: il furore verso una pianticella innocente).
Finale, poi, ammutolente.