Di recente
ho letto una dichiarazione del buon vecchio Lars von Trier nella
quale diceva che l’imperante politically correct della
nostra epoca è molto pericoloso perché così nessuno (si) pone
delle domande. Se lo afferma Mr. Provocation io mi fido ciecamente,
e, per collegarmi a The Trouble with Being Born (2020), credo
che anche Sandra Wollner possa condividere il pensiero del collega.
Di scuola austriaca (e si vede), questa regista classe ’83 al
secondo lungometraggio estremizza, almeno nella prima parte, il
concetto di provocazione spingendo la tavoletta dell’acceleratore
lì dove pochi altri nel settore hanno avuto il coraggio di arrivare.
Ma appunto: il primo blocco. Non posso nascondere che se il film non
avesse avuto una biforcazione, il quadretto incestuoso non si sarebbe
retto in piedi da solo poiché avrebbe mostrato ferite incurabili, e
non mi riferisco tanto al ricorrere di un rapporto morboso per
somministrare uno shock allo spettatore, quanto alla semi-esibizione
che ne consegue. È sempre il come, e non il cosa, a fare la
differenza. Infatti, una volta recepiti i connotati filmici, del chi
è chi, viene oculatamente introdotta una scossa all’interno della
narrazione, la Wollner, già abbastanza in palla in fatto di
autorialità, scombina la linea temporale del segmento paterno, (per
fortuna) non è chiaro l’andamento degli eventi, grazie
all’instaurazione di un clima misterioso fatto di luci naturali,
tragitti in sospensione nella boscaglia e distorsioni della tessitura
video, sembra, e sottolineo, sembra, che il flusso del racconto non
abbia consequenzialità ma viva di strappi, di flash, di ricordi del
papà (sicché acquisterebbero significato le vuote parentesi
professionali, l’azione è dentro la casa e stop) dove, in sordina,
è incastrato anche il ritorno della vera figlia (è palesemente
un’altra attrice, più adulta, non sono però riuscito a dirimere i
dubbi nella susseguente scena della piscina: è l’androide quello o
no?), aspetto forse confermato dopo quando Emil ascolterà una certa
notizia alla tv. Il rompicapo c’è e se ne prende atto, si prega di
andare al di là della patina perversa di superficie.
In molte
recensioni si accusa l’opera di perdere mordente con la mutazione
della bambina in bambino. Per lo scrivente è il contrario, alla
Wollner, e alla pellicola in sé, risulta indispensabile l’esistenza
della porzione con l’anziana donna perché è qui che si
esplicitano, in modo personale finanche respingente, i meccanismi
argomentativi che stanno a cuore al film. Sì, la suddetta frazione è
nettamente più lineare e ci spiega come poterci orientare in questo
mondo distopico che come da tradizione ha delle forti basi
realistiche. Il robot antropomorfo è il mezzo che l’essere umano
sullo schermo utilizza per raggiungere i propri fini, si tratta della
necessità di creare una relazione di dipendenza con un soggetto
completamente asservito al suo padrone, un po’ come accade con gli
animali domestici (sarà un caso che in una abitazione è presente un
gatto e nell’altra un cane?), le ragioni di un bisogno del genere
hanno natura diversa, per l’uomo è qualcosa di marcio e malsano,
per la vecchia sorella – se ho ben inteso – un antico senso di
colpa, ma a prescindere dalle motivazioni, la figura del robot serve
ad esorcizzare dei fantasmi che infestano l’animo dei
co-protagonisti, e ciò Die Last geboren zu sein lo
suggerisce con sufficiente efficacia al pari delle risoluzioni che
non sono positive ma anzi ricorsive perché pare che vi sia una
ripetizione ineluttabile di circostanze che (ri)portano ad una
separazione. Ed Elli/Emil? A ragione è stato evidenziato che
l’automa è un manichino di circuiti privo di emozioni (la
dimostrazione avviene nel parcheggio del supermercato, in un film
diverso lì ci sarebbe stato qualche cortocircuito mnemonico), però
mi sono piaciute le modalità con cui la Wollner riesce a camminare
sul filo dell’ambiguità facendoci credere che il soffio vitale del
replicante abbia un’organicità fatta di memorie e sentimenti, idea
che, alla fine, non mi sento di negare del tutto.
Il
macro-tema di The Trouble with
Being Born,
ossia il principio di sostituzione fisica e di conseguenza anche
emotiva, di un caro scomparso non è nuovo nella settima arte
contemporanea, faccio i titoli di Noriko’s Dinner Table
(2005), Alps
(2011) e mettiamoci pure Family Romance, LLC
(2019) da portare ad esempio, approcci diversi con non dissimile
obiettivo, esacerbare la condizione di un’umanità sola, per nulla
resiliente e incapace di metabolizzare un lutto, per il sottoscritto
la meta finale di Sandra Wollner si situa sulla stessa lunghezza
d’onda, ed è una meta raggiunta per merito di un metodo lodevole
che ravviva un cinema altrimenti impigrito dalla troppa scrittura.
Una visione che merita attenzione da non bollare con supponente
faciloneria, scontato specificare che ora si va in cerca di The
Impossible Picture (2016).
Danke
Dries!