Il titolo ci invita poi a riflettere su una specie di paradosso: quali sarebbero le “visioni di realtà”? È innegabile che non ci possa essere niente di più lontano da un concetto di reale quanto la struttura che Shirley esprime, l’evidenza dell’inscenamento ed il susseguirsi dei pannelli hopperiani sono il trionfo della finzione, del lavorio tecnico sulla materia, al contempo però l’opera racchiude in sé anche una decisa componente di verità. Non è semplice spiegarlo ma qui entrano in gioco le sensazioni che sottendono le tele di Hopper, l’oltre all’immagine, il silenzio e la solitudine degli americani qualunque, è una categoria di reale non convenzionale, ne convengo, tuttavia Deutsch coniugando le riflessioni della protagonista ai geometrici ambienti attua un’incursione che dribbla la falsificazione toccando porzioni di Storia (ogni stacco è un bollettino radio che ci aggiorna sulla situazione politica globale), e quindi di Realtà (bella la scelta di inserire un discorso di Martin Luther King). Sì, è ineluttabilmente un film patinato e narciso sebbene, credo, viste le intenzioni non poteva essere diverso da così, il risultato sarà forse più apprezzato dagli ammiratori di Hopper che dal cinefilo in cerca di alternative, resta comunque un esperimento con cui in fin dei conti val la pena misurarsi.
domenica 4 aprile 2021
Shirley: Visions of Reality
Scorribanda
del cinema nell’arte figurativa, dal passato emergono i positivi
ricordi di Leçons de ténèbres
(1999 – Dieutre & Caravaggio) e de I
colori della passione (2011 –
Majewski & Bruegel)
che condividono con Shirley: Visions of Reality (2013)
l’intenzione di riproporre/testare/omaggiare la forma (e non solo)
di un preciso artista, e per l’occasione parliamo di Edward
Hopper, già oggetto di attenzione da parte di pesi massimi come
Hitchcock e Lynch, che Gustav Deutsch, un viennese classe ’52
esploratore di stili e metodi, ridipinge su pellicola attraverso
tredici quadri che diventano altrettanti set, altrettanti tableau
vivant
che evocano il complesso passato di un’America a cavallo tra gli
anni ’30 e gli anni ’60. La costruzione delle scene operata da
Deutsch e dal direttore della fotografia (Jerzy Palacz, in passato
collaboratore di Seidl al quale Shirley
guarda da lontano e, perciò, la vista si allarga anche su Roy
Andersson) è davvero eccellente, la cromatura pittorica, la
precisione delle luci e delle relative ombre, recapitano un
concentrato estetico che è lo stesso di Hopper ma proposto da un
medium differente, e ciò esalta le capacità del cinema come
accogliente espressione capace di integrare manufatti di natura
diversa. Non vi è una trascendenza gnoseologica in tale
procedimento, ci si “accontenta” di un vedere
accompagnato
da una impreziosente corrente ludica.
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