Mai letterale, fazioso o ammiccante, Vers Madrid va dritto per una strada che sa di rivoluzione, veniamo sballottati dall’impeto del malcontento, dalla rabbia di chi non arriva a fine mese, e quindi anche dall’utopia perché sotto sotto sappiamo di quanto sia complicato, per non dire impossibile, scontrarsi con questa massa informe e proteiforme che risponde al nome di Sistema, e a tal proposito il film non fa sconti quando si occupa dell’altra faccia della medaglia, la negazione degli ideali prende corpo sotto le manganellate della polizia, è un risveglio traumatico che grazie a George viviamo in prima persona, è il caos che si palesa, urla, grida, colluttazioni violentissime, la tensione schizza fuori dai fotogrammi in bianco e nero, due uomini si denudano davanti ad un impassibile plotone di forze dell’ordine, purtroppo ecco la solita triste storia in cui chi detiene il potere lo esercita senza scendere a compromessi, anche in un Paese democratico nel cuore dell’Europa. E allora viene da chiedere che senso ha tutto questo? In quale modo il sacrosanto diritto delle classi medio-basse di far sentire la propria voce può scardinare la morsa elitaria? Il luccichio che brucia del sottotitolo si è poi tramutato in un incendio? Be’, forse qualcosa è cambiato visto che Podemos è diventato un partito di rilievo in Spagna, ma la percezione è che non sembra mai abbastanza, ciò, tra le altre cose, si deve all’eclissamento di una sinistra che non ha saputo più fare politica, ovvero non è più stata in grado di dare risposte ai cittadini, di programmare, e di conseguenza hanno preso piede tendenze pericolosamente nazionaliste e reazionarie. Il quadro, otto anni dopo Vers Madrid, è quello appena descritto, aspettiamo di vedere il successivo Paris est une fête - Un film en 18 vagues (2017) per misurare nuovamente con mano la temperatura di un mondo che non riesce a guarire.
lunedì 29 giugno 2020
Vers Madrid: The Burning Bright
sabato 27 giugno 2020
Dog Leash
giovedì 25 giugno 2020
Abigail Harm
martedì 23 giugno 2020
Donauspital - SMZ Ost
Ne esce fuori il ritratto di un ospedale-organismo brulicante di composte relazioni e connessioni, idealmente Geyrhalter ci offre un tour panoramico dall’alba al tramonto che segue all’incirca un filo conduttore esistenziale perché partendo dall’immagine di un neonato in lacrime si arriverà a quella di una salma riposta nella cella frigorifera dell’obitorio. In quest’arco di impassibile illustrazione all’occhio del regista, che diventa il nostro, non è celato nulla, o perlomeno è mostrato parecchio, che siano delle sonde a spasso nello stomaco di una persona obesa o che sia un cervello affettato su un tagliere come se fosse un salume (con cadavere sventrato sullo sfondo), l’esposizione è totale tanto che, in altri frangenti si potrebbe parlare di un’esibizione, quasi di un voyeurismo, ma qui no, qui la coerenza argomentativa e una forma parimenti coerente non fanno scadere la qualità dell’operazione. Geyrhalter, pur non scrivendo la storia del cinema, è un filmmaker più che rispettabile.
sabato 20 giugno 2020
Gulyabani
La strategia messa in atto dal regista è una delle più feconde di cui il cinema dispone, l’allestimento è squisitamente markeriano e vede la contiguità di elementi estranei che però, unendosi, generano un convincente edificio filmico. È sempre la solita apprezzabile storia: una voce narra, in questo caso la sensitiva, e dice cose che non corrispondono alle immagini sullo schermo, la faglia che si crea, la distanza tra udito e vista, è una delle cose più belle e pregne che può capitare quando viviamo l’esperienza della visione perché, data la sua essenza antiletterale, ci chiama in prima persona a partecipare al processo che lì si manifesta, come un’apparizione, un’evocazione, ed è un processo mnemonico, un flusso di memorie che sulla carta non ci riguardano da cui però veniamo inesorabilmente trascinati, e travolti. Il viaggio di Gulyabani non è comodo né confortevole, la frequenza delle diapositive, via via che ci si avvicina alla fine, si distorce, perde leggibilità, si altera in un caos nevrotico incontrollato fino a farsi estuario in un mare di strenua videoarte.
giovedì 18 giugno 2020
Mouton
martedì 16 giugno 2020
DAU. Three Days
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
Tre giorni, settantadue ore per denudare il re: finalmente, nell’immaginario di DAU entra in scena il per così dire biografato, Lev Landau è il protagonista principale di DAU. Tri diya (2020) e lo è non per questioni che si potevano presumere (questioni scientifiche), bensì per faccende amorose che di riflesso, attraverso un serrato confronto, delineano la sua forma umana, un misto di genialità (che non vediamo) e di debolezze (queste invece sì che le vediamo). Prima di addentrarci negli argomenti importanti val la pena aprire una parentesi: si è già ampiamente detto nei film precedenti dell’impianto teorico e pratico imbastito da Ilya Khrzhanovskiy, qui sarebbe interessante conoscere a fondo la vita del fisico sovietico per capire se davvero ha avuto legami così stretti con la Grecia (ad una banale ricerca su Google non spunta nulla) al punto di parlare fluentemente greco, perché altrimenti saremmo in presenza di una falla finzionale non in linea con i dettami del progetto. Come sapete l’attore che interpreta Landau si chiama Teodor Currentzis, un direttore d’orchestra ateniese, e cosa sembra che faccia Khrzhanovskiy? Sembra che gli cucia addosso una liaison con una vecchia fiamma ellenica che trovandosi a Mosca va a fargli visita nell’Istituto. Parrebbe una bazzecola, però a mio avviso va sottolineata questa scelta perché ritengo ci sia una discreta differenza tra mettere degli scienziati veri dentro ad un contesto fittizio dove ricoprono i medesimi ruoli professionali di fuori, e impostare un intero tassello di DAU su un’ipotizzabile romanzatura, peraltro asservita alla nazionalità dell’attore principale, insomma al sottoscritto, questo, è parso ad oggi l’episodio maggiormente “costruito” a tavolino, il che non significa che non sia meritevole di essere visto, anzi, è il contrario, tuttavia, visto che ormai ci siamo dentro fino al collo, ho ritenuto giusto rimarcare lo statuto ontologico di Three Days.
domenica 14 giugno 2020
Bobby Yeah
venerdì 12 giugno 2020
Vermilion Souls
mercoledì 10 giugno 2020
Infinitas
lunedì 8 giugno 2020
Printed Rainbow
sabato 6 giugno 2020
Edge of Democracy - Democrazia al limite
Petra Costa conduce il suo film cercando di rimanere lucida e abbastanza imparziale (ma anche sincera, la vediamo da giovane in un seggio elettorale votare per il partito di Lula) in modo che una persona non brasiliana che di questa vicenda ha ricevuto giusto delle vacue informazioni (toh: eccomi qua) possa farsi un’idea su come siano andate le cose. Nel processo di ricostruzione attuato dall’autrice, Democrazia al limite, a mano a mano che delinea i passaggi temporali che porteranno l’ex Presidente in prigione, assume sempre più i connotati di un’inchiesta che per fornire un quadro il più esaustivo possibile utilizza accorgimenti differenti, alcuni sono diretti come la trasposizione in video delle intercettazioni tra soggetti coinvolti, altri più sottili come la rapida rassegna delle copertine dei giornali dall’ascesa di Dilma alla sua caduta (e i mass media pare giochino un ruolo importante come sottolineato più volte), ma il meglio lo si coglie nei momenti in cui Petra o chi per lei si mette camera in spalla a stretto contatto con le figure politiche di questo assurdo teatrino, è impressionante la sequenza in cui i vari esponenti, in quello che forse è il parlamento o qualcosa di simile, deliberano per il sì o per il no relativamente all’impeachment di Dilma, solo che non è un normale dibattito ma una furiosa corrida dove i membri dell’opposizione sputano fuori una rabbia che arriva nella stanza dei bottoni del PT con una attonita Dilma di fronte la tv insieme ai suoi collaboratori, non di minore intensità è l’ultimo drammatico comizio di Lula nel quale si lascia andare ad una bellissima metafora sulla primavera prima di comunicare che accetterà la sentenza perché, dopotutto, crede ancora nella giustizia. Insomma, per uno come il sottoscritto, quasi a digiuno di cotanto inghippo brasileiro, gli elementi per costruirsi un’opinione a riguardo ci sono tutti.
E questa è la mia, di opinione: sembra palese che la macchina del fango messa in piedi per spodestare Dilma dalla carica presidenziale sia servita a: 1) aizzare la popolazione contro il partito di riferimento facendo leva sull’immancabile malcontento popolare e 2) ad arrivare al pesce più grosso, a Lula, per legargli le mani ed eliminarlo definitivamente dalla scena governativa. È sicuramente una brutta pagina di Storia che purtroppo, da italiano, non mi stupisce più di tanto, tuttavia permane la preoccupazione perché alla fine chi ci ha guadagnato davvero è solo Bolsonaro, uno dei tanti rappresentanti dell’angosciante piega estremista che ha preso la recente politica mondiale, un reazionario a capo di un Paese immenso con più di duecento milioni di abitanti nonché fondamentale ago della bilancia per mantenere l’equilibrio già piuttosto precario dell’ecosistema terrestre. È per questo che Edge of Democracy va visto, per prendere coscienza, non solo di quello che è accaduto in Brasile e della sua attuale allarmante realtà, ma anche per gli effetti che da lì sono scaturiti, per non trovarci impreparati nel caso in cui un tizio che di solito si mette delle felpe o delle uniformi che non gli appartengono, se ne salisse tutto tronfio a Palazzo Chigi.
giovedì 4 giugno 2020
Elsewhere
[1] Questo ragionamento vale se Geyrhalter si è concretamente spostato sulla cartina del mondo per ogni ambientazione ripresa. Se al contrario ha avuto degli operatori in loco che gli hanno mandato il materiale nella sua casetta in Austria, be’, allora il mio discorso decade miseramente.