È un film femmineo
Phantom Love (2007), un’opera-vagina che ci permette di
copulare con una serie di dimensioni a cui, è il caso di
dirlo, non siamo preparati, perché l’irregolarità
narrativa che Nina Menkes diffonde nel lungometraggio dissesta la
prassi e di conseguenza anche la visione. La logica acchiappa
un’interpretazione: quella del triangolo famigliare madre-due
sorelle che lentamente trascina le giovani in un vertiginoso abisso,
e per implementare questo stato di dedali e trappole oniriche la
regista d’origine austro-tedesca fa del suo meglio per soffiare in
scena una nebbia che sa di oblio e che si propaga oltre lo schermo,
alla resa dei conti ritengo che un film come Phantom Love non
necessiti obbligatoriamente di una decodificazione razionale, è
in singolarità come queste che dialogano apertamente con una
certa sperimentalità che le convenzioni saltano e se loro saltano
allora anche la costrizione di ritrovarvi una storia al suo
interno si dissolve. Ecco dunque una specie di libertà, di
noncuranza verso chi guarda. Se ci si riesce a sintonizzare su tali
frequenze è possibile trascendere la conformante ricerca
aprioristica di una narrazione, di fronte ad un lavoro come quello
della Menkes si attraversa la porta del sensoriale dove i dogmi del
tempo e dello spazio vengono divelti.
Un approdo in lidi così
lontani dalla tradizione può comportare comunque il rischio di
sfociare in un narcisismo autoriale dove il flusso filmico tende ad
assumere i connotati di un fiotto spermatico, risultato della pratica
onanista applicata al film, è un’eventualità
riscontrabile in prodotti tendenti all’estremo come questo laddove
il confine tra lo specchiarsi nell’estetismo e fare dell’estetica
l’architrave che ne regge la totalità è
talmente labile che spesso una delle due strade finisce per
soverchiare l’altra. Comunque, per quanto possa valere il giudizio
del sottoscritto, Phantom Love non ha, o almeno non in maniera
così acuta, l’insolenza artistica di cui sopra e mi sento di
affermare con moderata sicurezza che la mia memoria fotografica non
cancellerà facilmente alcuni passaggi visivi che popolano il
lungometraggio, simboli (il serpente nel corridoio kinghiano) o
immagini fine a se stesse (di nuovo il serpente…), sequenze
inintelligibili (la lievitazione sul letto in stile Tarkovskij) e altre illuminanti (la
splendida sovrapposizione di pellicola che fa delle due sorelle una
sola Donna), per un catalogo di forme abbacinanti tra il carbone e il
nitore, una manifestazione fattuale sul potere suggestionante del
cinema.
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