mercoledì 3 febbraio 2021

El desierto negro

Non gli manca sicuramente una cura formale di alto profilo a questo film del 2007 intitolato El desierto negro che rappresenta, tra l’altro, il debutto di Gaspar Scheuer, tecnico del suono argentino dal lunghissimo curriculum, e basta osservare il prologo con l’uccisione del padre il cui corpo esanime piomba di colpo in un’insondabile e quasi caravaggesca oscurità per comprendere la qualità estetica dell’opera. La prima parte, soprattutto, seguendo il fuggitivo (ah sì: è il racconto di una fuga) nella pampa o in un territorio simile si esalta nei contrasti argentei dell’ambiente tra il lucore del giorno (affascinanti i passaggi tra le spighe di grano) ed il fatale buio notturno, e poi geometrie ottiche di rilievo (un campo lungo molto tarriano con carretto sul filo dell’orizzonte), piani ad effetto (quando si stringe sul viso accigliato del protagonista, un Franco Nero emerso dalle tenebre, ci ritroviamo in un western che più dark non si può), chicche gradite (in uno dei momenti topici si diffonde il colore [inevitabilmente rosso] nel massiccio bianco/nero). Insomma, Scheuer e i suoi collaboratori hanno effettuato un egregio lavoro nel settore visivo tanto che potremmo considerare El desierto negro il degno predecessore dell’ottimo El Movimiento (2015), ma rispetto al titolo di Naishtat qui parliamo di un oggetto privo di particolari risvolti allegorici, è maggiormente un film “di trama” nonostante l’evoluzione della scrittura sia ampiamente diluita nel fare contemplativo di cui si avvale.

Da rivedere la svolta narrativa, se così può essere definita, che cambia letteralmente volto alla pellicola, è un ribaltamento segnato da una notevole sequenza che getta uno spesso alone di mistero su tutta la faccenda e che amplifica lo spettro interpretativo. Siamo nel terreno delle ipotesi ma sembrerebbe proprio che Miguel, sopravvissuto miracolosamente alla fucilata del capitano, giunga in una fattoria dove il bambino, che si chiama come lui, aspetta probabilmente invano il proprio papà. Scopriremo solo dopo che una sostanziosa ellissi ha tagliato fuori dalla storia ben sette anni, ma l’impressione è che Scheuer faccia un passo oltre, che scompaginando la linearità fino a quel momento registrata suggerisca un’apprezzabile idea di tempo circolare e non essendoci alcun tipo di letteralità ogni cosa galleggia nel dubbio e nell’instabilità, stati d’animo che mai e poi mai disdegnerei al cospetto di una visione. Note meno positive sul comparto sonoro, ed è un paradosso visto che sarebbe il primo mestiere del regista, però le entrate musicali atte ad intensificare quella o quell’altra scena non hanno troppa ragion d’essere in un esemplare scolpito nella potenza dell’immagine, e leggera disapprovazione anche su un finale che poteva regalare emozioni differenti, piccole macchie che comunque non mi schiodano dal parere generale, El desierto negro è, infatti, un film che sento di consigliare.

lunedì 1 febbraio 2021

Barbie también puede estar triste

La notiziona è che sia Barbie che Ken, a differenza dei nostri fallimentari tentativi dell’infanzia con le bambole della propria cugina o sorella, possono tranquillamente copulare perché dotati di organi sessuali in regola, almeno per Albertina Carri, regista argentina con cui anni fa non era scattato quel feeling necessario durante la visione de La rabia (2008). Barbie también puede estar triste (2002) trasporta nel territorio pornografico la vita di una ricca ma infelice Barbie alle prese con un marito fedifrago, la tecnica di animazione scelta è la sempre a noi cara stop-motion che nello specifico muove dei pupazzi dalla consistenza più di plastilina che di plastica all’interno dei consueti ambientini ricreati in dettaglio (questi particolari, al solito, si rivelano per chi scrive come le componenti maggiormente appaganti da cogliere perché frutto di uno sforzo creativo e artigianale), il risultato è accettabile se si vuole vedere qualcosa di leggermente inusuale (purtroppo bisogna sempre sottolineare che in un mondo dove la tecnologia viaggia a duemila all’ora, in un periodo di due decenni il cinema, compreso quello animato, ci ha proposto tutto e il contrario di tutto), nella sua dimensione ristretta il corto è poco più che un passatempo per chi lo ha girato e una sì e no simpatica quisquilia per chi lo guarda.

La Carri, dando giusto un’occhiata anche alle sinossi delle sue altre opere, sembra avere una certa attenzione verso la sessualità e l’erotismo, anche a costo di avventurarsi in quei scandalucci festivalieri che ogni tanto si palesano, e Barbie... si allinea a tale direzione sebbene a livello tramico ogni snodo diventi il pretesto per offrirci un po’ di pornografia in passo uno. Siccome non sarà di certo il sottoscritto a discettare sul racconto in sé perché la sua confezione è lì a non richiedercelo, alla fine salta fuori anche un happy end con una specie di morale: in pratica dopo aver assistito alla prepotenza di un Ken che tradisce la moglie con la segretaria e che per affermare il suo status di maschio alfa le picchia entrambe, al termine della storia si troverà solo e abbandonato con Barbie nuovo membro felice di una famiglia decisamente anticonvenzionale. L’intento parabolico si sostanzia dunque così, in un lettone promiscuo che ricalibra il concetto di amore. Una caramellina da mangiare nel caso abbiate venti minuti liberi, dopo poco si sarà già volatilizzata nel vostro palato.