giovedì 30 aprile 2020

DAU. Natasha


IL PROGETTO DAU

C’è un folle che si aggira per la Russia, questo folle si chiama Ilya Khrzhanovskiy.
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
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DAU. NATASHA

Il primo (tassello?, episodio?), anzi: la prima via d’accesso che ci permette di perforare il sistema-DAU è DAU.Natasha (2020), sul perché Khrzhanovskiy (coadiuvato dalla collega Jekaterina Oertel) abbia voluto iniziare proprio con questo segmento lo spiega – si fa per dire – così (link): “Penso che volessimo semplicemente iniziare con Natasha, ed è stata una decisione presa di comune accordo con il direttore della Berlinale Carlo Chatrian”, se si poteva pensare che il primo contatto fosse di tipo introduttivo, che ci potesse illustrare l’universo sovietico riprodotto, che fosse una panoramica del grande disegno generale, la realtà che dopo pochi minuti si spalanca è ben diversa perché è proprio la realtà che vediamo, a quanto si evince bisogna subito rapportarsi con un concetto di cinema dal taglio eminentemente realistico, provando ad andare indietro nel tempo per ripensare a 4 (2004), l’unica altra opera di Khrzhanovskiy vista, ricordo vagamente una tendenza verso il grottesco che in Natasha non c’è, al momento non ci è dato sapere se anche gli altri figli generati dal dio-DAU avranno medesima natura (mi piacerebbe di no, mi piacerebbe che ci fosse un’ampia eterogeneità formale), di sicuro questo titolo ingaggia una strenua lotta con la finzione: lo stralcio a cui assistiamo riguarda la storia di Natasha, una donna che insieme alla giovane Olga gestisce la mensa dell’Istituto, senza spiegazioni, senza coordinate, veniamo assorbiti da un susseguirsi di blocchi narrativi che esaltano un’idea di verità applicata alla scena, è chiaro che chi calca la suddetta scena recita, è chiaro che sono attori, ma nel congegno in cui sono inseriti e nelle modalità con cui ci vengono proposti traspare una naturalezza che allontana di brutta maniera tutti i mortali pantani appartenenti alla rappresentazione. Non parliamo di un cinema innovativo perché gente come Puiu e Mendoza ci ha costruito sopra una lunga carriera, e penso che non ci sia neanche da stupirsi se lo intendiamo come cinema in preda ad un raptus ostensivo che gode nel mostrarci tutto ciò che riesce senza celare nulla (neanche un rapporto sessuale), però è impossibile non pensarlo in un’ottica più ampia, quella che comprende l’interezza del progetto facendo sì, magari, che nei capitoli successivi rivedremo Natasha, che la sua vicenda possa svilupparsi, sotto altra foggia o la stessa, nell’animo di un cinema che è allora eccezionale perché multi-penetrabile ed espandibile fino ad un punto che ad oggi è sconosciuto, e questo è indubitabilmente un grande stimolo.

DAU.Natasha è vero che per sua costituzione esibisce se stesso, tuttavia non esibisce praticamente nulla dell’Istituto. La fortezza d’argilla di Khrzhanovskiy si intravede giusto oltre qualche vetro o nel finale quando la protagonista abbandona l’interrogatorio, poco male, avremo modo e tempo di vedere il resto. La performance, occludente e claustrofobica, si consuma principalmente in tre location: il ristorante, la camera da letto e l’ufficio/scannatoio di Azhippo, ma il vero “ambiente” che Khrzhanovskiy sa rendere forse ancora meglio dei set esterni è l’interiorità degli esseri umani, soprattutto, e non poteva essere diversamente, di Natasha. La costruzione del suo personaggio si dà per mezzo di connessioni, rapporti, legami che, per ossimoro, non necessitano di alcuna costruzione: Natasha è lì, dietro ad un bancone che prende gli ordini, o anche lì: stanca a fine turno che discetta sull’amore con la collega, e là: accovacciata in un corridoio che fuma e piange. Se c’è un aspetto che si può intuire dal primo morso di DAU è il lavoro effettuato da Khrzhanovskiy con i suoi interpreti e la collocazione che ha dato loro nel film, non personaggi ma persone, e la cosa pare funzionare anche, o forse proprio perché, non vi sono attori professionisti, se si osservano i crediti finali più o meno tutto il cast ha mantenuto il proprio nome anche nella finzione. Pur essendoci triliardi di pellicole che affrontano l’eterna diatriba vero/falso nella settima arte, la visuale che ci dà il regista russo non sa neanche un po’ di derivazione, o almeno non troppo.

Mancando completamente i riferimenti scientifici (c’è soltanto una breve parentesi con il fisico francese che si compiace dei risultati ottenuti con i colleghi russi), a Landau, a qualunque tipo di attività venga svolta nell’Istituto, il film si concentra sull’esistenza di Natasha, di colei su cui nulla sappiamo e che eppure ci sembra di conoscere da una vita, su un suo spiraglio sentimentale, sulla sua contraddittorietà squisitamente femminile, sulle sue debolezze e insicurezze, è un ritratto vivo che chi scrive ha apprezzato non poco anche perché, allargando la prospettiva, il suo profilo va ad affiancarsi fino alla drammatica collisione con quello di un Paese e con il clima di sospetto che lo imbeve. Se alcune sequenze possono apparire troppo diluite e forse nemmeno così indispensabili (penso alla conversazione con Olga che poi finisce per ubriacarsi), l’imbuto dell’interrogatorio che fa precipitare gli eventi è un bello strappo che inchioda alla sedia per tensione crescente e senso di impotenza davanti ad un’autorità vessatoria e autocratica, in parallelo Khrzhanovskiy sembra suggerirci quale sarà l’atmosfera che ci attende nelle future visioni perché questa è stata l’atmosfera che ha caratterizzato il passato, un sistema che in nome del controllo totalitario uccide il piccolo sogno del singolo, sarà interessante scoprire se rivedremo ancora Natasha e se il suo atteggiamento nei confronti di Azhippo è stato un bluff oppure no.

Il passo è stato compiuto, dopo anni di attesa (per vostra non richiesta informazione era dal 2010 o giù di lì che avevo segnato DAU in wishlist) siamo finalmente dentro, una cosa è certa: non se ne uscirà facilmente. A presto con DAU. Degeneration (2020).

martedì 28 aprile 2020

Eggshells

Prima del successo epocale di Non aprite quella porta (1974) Tobe Hooper dava alla luce un lavoro che se non è definibile come l’opposto di uno dei capisaldi horror della nostra epoca poco ci manca, Eggshells (1969) avrebbe anche un possibile strato argomentativo più o meno in linea con il film successivo, siamo in Texas e la lente di Hooper si occupa nuovamente di una casa e di alcuni giovani che vi risiedono all’interno, inoltre sono chiari i rimandi al contesto sociale dell’epoca (ce lo dimostra una parata pacifista che apre l’opera) che si palesa alle nostre orecchie per bocca dei loquaci protagonisti colti da un taglio filmico che a tratti sa essere perfino vero, reale. I punti di contatto sono dunque questi, tuttavia il regista americano per il suo lungometraggio d’esordio si rifà ad un cinema sessantottino e controculturale che non ha niente da spartire con l’enciclopedia horrorifica, è comunque una sorpresa: non sono un esperto di Hooper, non ho praticamente mai visto nulla oltre i suoi prodotti più celebri, ma è evidente che dopo l’exploit del ’74 abbia improntato l’intera carriera verso l’area della “paura”, Eggshells, invece, può spaventare, ma in modo diverso, poiché è un oggetto enigmatico, bizzarro, folle, non c’è una goccia di sangue qui, non scorrono brividi né mattanze, il confine a cui giunge Hooper parrebbe quello dell’arroganza artistica, però il non-tutto che costituisce il film va a mio avviso rapportato al periodo d’appartenenza e se poi aggiungiamo la giovane età di chi reggeva la mdp, credo che l’evidente confusione a cui si va incontro debba essere carpita più come un moto di ribellione sbarazzino che un cervellotico e fine a se stesso affresco hippie.

Di roba dentro ad Eggshells ce n’è sicuramente tanta, più che altro ci sono almeno due fattori che sviano l’attenzione: l’assenza di una linearità tramica ed un uso esuberante di parecchi elementi tecnici da parte di Hooper, in ambo i casi direi che c’è da essere soddisfatti, non sarà una pellicola semplice ma almeno non è allineata alla banalità del già visto. In un andamento che si avvicina quasi al documentario, vengono aperte delle parentesi intensificate alla grande in fase di montaggio che ci ubriacano, graffiature psichedeliche di assoluto rispetto che proiettano la storia, o quel che ne rimane, in meandri lisergici che non dispiacerebbero al Noé di Enter the Void (2009) o a qualche integerrimo avanguardista, si segnala una sequenza verso l’inizio che enuclea quanto appena detto dove veniamo allucinati da un accelerato tour della casa (discutibile solo il buffo e respingente commento sonoro) ed un’altra verso metà che distorce e contorce un rapporto sessuale. Non solo manipolazione post-produttive, nella diegesi si rintraccia una discreta quantità di particolari accorgimenti (la lunga ripresa frontale della scala) e sane (si fa per dire) stramberie (che accidenti c’è nella cantina?) da soddisfare quella weird-attitudine che alberga dentro di noi. Ecco, giunti alle conclusioni mi sento di dire che: non ci ho capito pressoché nulla in Eggshells, vuoi per mancanza di basi storiche e culturali e vuoi per la natura stessa del film che non è di facile lettura (senza mai scordare gli eventuali limiti celebrali del sottoscritto), comunque sia alla fine è sempre un po’ il solito discorso, checci importa di capire se anche con tutte le imperfezioni del caso abbiamo provato brandelli di fascinazione?

lunedì 27 aprile 2020

Get Friends / Get Love / Get Suicide / Get Trust

Inizialmente non gli ho dato troppo conto, l’ho messo lì (lì: in una cartellina dove confluisce la musica che mi passa davanti).
Poi, ascolto dopo ascolto, è cresciuto molto (molto: è sbocciato come le rose che stanno sulla copertina).
Se fra vent’anni mi chiederanno quale è stato l’album di questa quarantena infinita (infinita: perché è iniziata da prima, l’isolamento è atavico).
Risponderei con una corsa a perdifiato sotto delle stelle irlandesi, nel pieno di una notte che non mi fa sentire né figlio né padre, in una rabbia interna che pulsa, che viaggia da un nervo all’altro arrampicandosi su ogni gradino della spina dorsale impegnata ad evitare che il mio corpo si disassembli in questa corsa di vita o di morte, di asfalto che si fa sabbia, che si disfa, come me, tartarughina cieca appena uscita dal suo uovo o balena millenaria spiaggiata sull’arenile, come te (te: ?).
Direi che Karma of Youth, nell’energia che da lui divampa, nei colori che in me scorrono come un film mentre lo ascolto, è l’album che più mi ha fatto compagnia mentre tutto, fuori, finisce di essere tutto (tutto: I don’t have a soul to talk to anymore / But I’m waiting all night / And I’m waiting all night).

domenica 26 aprile 2020

Retour

La prima sensazione che vola via da Retour (2017), oggetto di una delicatezza commovente, è che, parlando a titolo del tutto personale, a volte succede di come il cinema sappia ancora dirci qualcosa come se fosse la prima volta che lo vediamo, e ciò accade nonostante il congegno che lo tiene in piedi non è nulla, ma davvero nulla, che non sia già passato davanti ai nostri occhi (potremo venire colpiti dalla più feroce delle amnesie ma quando un film di montaggio è accompagnato da un parlato in francese l’aura di Chris Marker si leva potente), eppure questo ragazzo classe ’88 di nome Huang Pang-Chuan espone la propria intima storia arrivando dritto dritto al nucleo che fonda un po’ tutto, e non solo nell’arte ma anche e soprattutto nell’umano, arriva al cuore, ma con una carezza che quasi non si sente, è un balsamo per l’anima, una vicenda di pura dignità che si amalgama nel passato germinandosi da una fotografia disastrata dal tempo che ritrae un tizio dai tratti orientali vestito da lavoro, non è niente, è: l’inizio di un mondo, di un’esistenza umile e sofferta che ha patito una guerra, non si sa quale e poco importa, e quell’istantanea sbiadita, scattata con l’idea di essere recapitata ai propri cari, rimane per decenni nella giacenza del dimenticatoio, in una scatola qualunque, e sarebbe rimasta lì se non fosse che un piccolo miracolo chiamato cinema, prelevandola dalla polvere e donandole una nuova vita impegnandosi a raccontare la sua, ha deciso di darle il tributo sentimentale che meritava.

Ed è anche un viaggio Retour, come se non fosse altro, come se non ci fosse altro, viaggiare, attraverso un’Europa che si converte in diapositive sfuggenti e sfocate, in notti dove è meglio stringere a sé il bagaglio, e in suoni che un tappeto musicale riverbera al quadrato in un babelico vociare di idiomi incomprensibili, e poi in incontri, che non vediamo, perché, che lo si sappia, non si vede granché, però si immagina perché un viaggio è questo, è la libertà di avvicinarsi all’ignoto avendo l’opportunità di riempirci la solitudine con la vicinanza di altri che appena tocchiamo (la donna russa e la sua spiegazione sull’instabilità dei convogli ferroviari), ma questo è un viaggio che non riguarda un banale movimento spaziale, è ben di più, è un nostos by train che riallaccia un filo tranciato così tanti decenni fa che in mezzo c’è stata una contro-migrazione verso la Francia e l’annessa edificazione di un altro esistere, lontano da Taiwan, e quindi Huang, regista del corto e regista di se stesso, e quindi lui, nipote immigrato di seconda generazione, e quindi noi, spettatori con i nostri nonni immortalati a loro volta in vecchie foto ingiallite, e perciò tutti, ora e sempre impegnati in un viaggio che trascende i chilometri e gli anni per arrivare, forse, ad una meta: “mi trovo sulla spiaggia di Xiamen, la città più vicina a casa mia, e dall’altra parte del mare, là, c’è la mia terra natale”.

venerdì 24 aprile 2020

My Brother's Name Is Robert and He Is an Idiot

Noto in giro che parecchi siti italiani hanno letteralmente massacrato Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot (2018) di Philip Gröning, eviterò di fare un ragionamento un po’ tendenzioso del tipo, ehi, non è che il regista ha voluto esattamente suscitare in voi il disprezzo e l’irritazione che avete provato durante la visione? No, mi pare sia una veduta troppo cieca, limitata, soprattutto per un film del genere che mette in collisione delle altezze esistenzialistiche con delle orripilanti bassezze. A mio modo di vedere l’opera di Gröning rappresenta una bella sfida, ardua, sì, ma bella, il che non significa che My Brother’s Name... sia un bel film, come non si nega che valga almeno la pena rifletterci sopra. Le similitudini con il precedente La moglie del poliziotto (2013) ci sono, in particolare in quello che pare essere uno degli obiettivi di Gröning, ovvero raccontarci il lato oscuro dell’essere umano e la violenza che in lui alberga, la differenza tra le due pellicole sta nelle modalità che ci fanno pervenire a tale disamina: il lavoro del 2013 aveva una struttura più immediata e si prestava ad una lettura più accessibile, lì c’era un claustrofobico ritratto di violenza domestica, punto, era, se permettete, facile arrivare ad una comprensione perché era parimenti semplice (tra virgolette, parliamo comunque di un monolite autoriale di quasi tre ore) accettare il disegno globale, ok, in estrema sintesi Gröning aveva voluto mostrarci la brutalità maschile dentro una relazione avariata. Qui le cose sono maggiormente complicate, sì il punto di arrivo è equiparabile (abbiamo di nuovo un rapporto famigliare al centro della scena e nuovamente da questo rapporto erutta una ferocia incontrollabile), però la prima sensazione è che manchino delle basi forti, delle valide premesse che possano legittimare l’escalation di cattiveria. Ciò lo si pensa subito, stizziti, a caldo, ma dopo, immergendoci ulteriormente nella questione, altre porte interpretative con annessi interrogativi si spalancano.

Un male che pare affliggere My Brother’s Name... riguarda l’ostinato mood filosofico che la sceneggiatura (scritta insieme a Sabine Timoteo che si è occupata di tratteggiare Elena) ha cucito sui due protagonisti, non possiedo le competenze necessarie per sostenere se il per nulla stupido Robert dica delle panzane o meno, ma tutto il suo ciarlare risulta vacuo e ridondante, sterile, futile, incompatibile con la deriva sanguinolenta che prenderanno i fratelli. Tempo, esistenza, speranza, vita, morte, argomenti di un certo livello che passano così, come slogan per riempirsi la bocca o per infarcire di contenuti un oggetto filmico che, mettendo poi in scena stupri e omicidi, li annienta in un istante, eppure puntare erroneamente il dito su una falsa intellettualità o su un’immotivata malignità sono accuse che senza pensarci troppo è quasi automatico sostenere, e lo dico pur ammettendo che Gröning si lascia andare a delle gratuità dove in effetti si può comprendere l’indignazione di quel pubblico che a Berlino ’18 abbandonò la sala prima della fine (sicuramente la sequenza dell’incesto avrà dato il colpo di grazia), io invece proporrei di concentrarci un attimo su Robert ed Elena. Chi sono? Dove sono? Dove stanno andando? Sono due ragazzetti (non all’anagrafe del reale, lui è dell’89 mentre lei dell’83) ed essendo tali, proprio nella loro ontologia, vivono un tornado indefinibile di sentimenti, e lo dico subito: dall’angolazione del film generazionale Gröning se l’è giocata alla grande perché ha mimetizzato la spinta coming of age in un calderone di tematiche che sviano l’attenzione.

In realtà, almeno la realtà che ci ha visto chi scrive, il legame tra i due gemelli, le interazioni che hanno, a volte tenere a volte iraconde, il momento di passaggio che stanno vivendo (lei è in procinto di dare l’ultimo esame, lui dovrà andare o tornare in Spagna), gli impulsi sessuali e gli amori tormentati, la gelosia, l’attaccamento, la morbosità, la fiducia, il venirsi incontro (immagine chiave del film), sono gli indicatori di un termometro adolescenziale che sale e che scende al di là di ogni possibile controllo, più che due persone provenienti dal medesimo grembo, sono i simboli dell’età che hanno e del periodo che vivono. Se poi li caliamo nell’ambiente pensato da Gröning (e anche costruito, non trovando una location adatta ha deciso di edificarsela), anonimo ed ignoto, ecco che l’intera vicenda assume caratteristiche astratte, ci sono Robert ed Elena, ma fino ad un certo punto, quello che li spersonalizza, che li fa dimettere dai ruoli che hanno, che li fa diventare due acerbe entità in preda all’istinto senza perdere la cifra immaginifica della giovinezza (Elena, pur avendo ucciso a sangue freddo il benzinaio, ripeterà con convinzione che la pistola è finta), uccidere, amarsi, sono solo giochi (non c’è differenza tra sparare con il super liquidator e con una rivoltella vera), tra una pagina di Heidegger e l’altra, tra il piacere di essere liberi e il desiderio di essere adulti (il rossetto). Anche da una prospettiva esegetica come quella appena descritta, Gröning calca la mano sul fatto che, sebbene in una dimensione concettuale, la frontiera dell’umano a cui è interessato rimane il buco nero di una violenza insita anche in due soggetti inizialmente insospettabili perché affrancati dalle brutture di un’adultità che invece arriva inesorabile con quell’ultimo sguardo in camera, figlio del medesimo che chiudeva La moglie del poliziotto, dove Elena in lacrime, in una presa di coscienza, a transizione appena avvenuta, si e ci chiede: ma che cosa abbiamo fatto?

mercoledì 22 aprile 2020

History of Fear

Se ne parla malino un po’ ovunque di Historia del miedo (2014), però, il consiglio, è come sempre quello di non dare troppo ascolto agli altri, compreso il sottoscritto, ma di prestare attenzione a ciò che sentite voi, e, giusto per informazione di servizio, quanto segue è brevemente il mio personale punto di vista: sì, il film ha dei difetti, il principale è forse l’assenza di una concreta profondità semantica, percepibile ed in nuce, eppure priva di quell’ampio respiro che virtualmente avrebbe. Il materiale che Naishtat maneggia ha una temperatura alta come i misteriosi roghi che si alzano dal quartiere residenziale: critica ad un certo tipo di società, paralleli sulla situazione economica dell’Argentina, ritratti sardonici di alcuni status sociali (il “gioco” conclusivo durante la cena è un mettere a nudo i commensali proprio da tale angolazione), si sfiora tutto questo, lo si tange, si arriva alle soglie di un possibile ingresso fruitivo e poi ci si blocca, il rito non riesce a compiersi, perché? Approccio troppo estroso? Autorialismo sterile? Assenza di un filo conduttore davvero avvolgente? Tutto può essere al pari del suo contrario, limitiamoci ad elencare ancora una carenza di tipo concettuale: sebbene l’impianto dell’opera si presenti molto scombiccherato vi sono momenti che risultano fin troppo diretti, che si velano senza riuscire a scrollarsi di dosso la loro cifra esplicativa, è il caso della scelta di utilizzare i black-out come metafora di un affievolimento più grande e sconosciuto, in tale ottica il finale acutizza l’idea di un buio incombente e non si può negare che le cose funzionino anche, tuttavia si ha l’impressione che avrebbero potuto funzionare ancora meglio.

La visione de El Movimiento (2015) aveva trasmesso a chi scrive l’idea che Benjamín Naishtat fosse un regista intraprendente e per nulla coricato su quegli schemi che inaridiscono il cinema, il lungometraggio di debutto, depurato delle imperfezioni di cui sopra, non fa che confermare la suddetta statura, Naishtat affronta con discreta personalità la strada di un impietoso disegno contro la pigra borghesia, cita e raccoglie al di là dell’Atlantico (c’è Haneke alla fine) senza comunque infastidire o scadere nella blanda riproposizione, vieppiù che l’apparato estetico è punteggiato da soluzioni visive mica male, si prenda l’interessante incipit con la ripresa aerea o il sopraccitato ultimo pasto privo di luce, ma soprattutto, sebbene il film incameri minuto dopo minuto un progressivo scollamento pressoché insanabile, possiede un’onda silente che sa sbattere sulla superficie delle cose provocando effetti non così sottovalutabili. Prima mi chiedevo se era presente un trait d’union atto a fornire una significazione coagulante, diciamo che il titolo potrebbe darci una mano, sarebbe infatti la “paura” il fattore che connette i personaggi sullo schermo, i detrattori obietteranno che però l’allestimento raggiunge una sgangheratezza incapace di avere un ritorno, nemmeno se si certifica l’esistenza di frammenti che riescono ad instaurare un disagio, un malessere, una scomodità e via dicendo. Per quanto mi riguarda il baricentro sono proprio i frammenti: se proposti come Naishtat fa, ovvero inseriti in una cornice artistica di medio-alta fattura ed equipaggiati di un contenuto appetibile (fino a quando non si scivola nella didascalia), allora del spasmodico bisogno di un solido flusso aggregante ne faccio anche a meno, non sempre accade, ricordo ad esempio Free Fall (2014) di Pálfi la cui natura segmentata mi fu indigesta, ma quando accade sono contento di fare la conoscenza del Benjamín Naishtat di turno.

lunedì 20 aprile 2020

Depressive Cop

Non ci si aspettava nient’altro che non fosse ciò che Depressive Cop (2017) è: ovvero una piccola via di accesso all’immaginario di Bertrand Mandico. Questa volta il regista nato a Tolosa si impegna nell’allestimento di un’atmosfera da polar, sì, ma da polar in stato alterato dove il bianco e nero di una località marina battuta dal vento si accompagna, in particolare nel finale, a delle riprese in bassa qualità che sembrerebbero girate da una punk band strafatta di qualche droga sintetica sul finire degli anni ’80. Per la cronaca, sebbene la trama rimanga un mero sfiatatoio delle turbe di Mandico, qui abbiamo un poliziotto che indossa una maschera di gomma e una donna (sempre Elina Löwensohn, onnipresente figura femminile) che ha smarrito la figlia (anch’essa interpretata dalla Löwensohn). Nei dodici minuti complessivi, mandichiani fino al midollo, il personaggio materno oscilla, come al solito per l’autore, in un limbo di perversione e follia, attributi che, e credo possiate concordare, spiccano non solo come caratteristiche specifiche della donna presente nel corto ma, allargando la visuale, anche come condizione generale – suppongo – dell’intera filmografia. I lavori di Mandico sono femminei e ci parlano attraverso una sensualità sordida, impura, tutt’altro che raffinata ma, e magari proprio grazie a ciò, efficace. Gli uomini, nel mondo strabordante così creato, sono soggetti accessori se non del tutto assenti, oppure presenti ma sotto spoglie muliebri, vedi The Wild Boys (2017).

E a proposito del lungometraggio-summa, Depressive Cop, per via dell’isola che trascende il ruolo di semplice ambientazione, sembra avere un certo feeling con la suddetta opera coeva, al contempo però, vuoi per il formato ridotto o vuoi per le precise intenzioni del regista, la traccia narrativa (la ricerca di questa figlia-pirata) si diluisce più del solito nel pozzo oscuro e perturbante in cui tutte le storie di Mandico finiscono (perché è da lì che provengono, quindi non si scappa). Che cosa succede allora? La domanda del rispettoso spettatore razionale non può che rimanere inevasa, il punto nodale che bisogna capire e, se lo si vuole, anche accettare, è che i titoli di Mandico, soprattutto i cortometraggi, vanno presi come performance estetiche dove si porta avanti un’idea di cinema criticabile o meno che ad ogni modo, banalmente, è pur sempre un’idea, peraltro piuttosto originale perché il caro Bertrand, al netto di plausibili influenze che ormai ha fatto proprie, rimane un unicum nel panorama mondiale. Da ciò si trae la risposta al quesito posto poco sopra, no, non si sa bene cosa accade nonostante sullo schermo ci sia parecchio movimento, ma le congetture in ottica tramica sono effimere, se ci si riesce a liberarsene, ed è un monito che vale per tutto, potrebbe affacciarsi del timido godimento.

domenica 19 aprile 2020

Questi sono i giorni

In questi giorni, in questi giorni che non sono giorni né sono notti, sono tempo, così lento, così vacuo e denso, non immaginavamo di tornare nelle torride vacanze estive delle elementari, se hai passato i trent’anni e vivi con i tuoi ti senti più inetto del solito, se vivi da solo non sai se ci riuscirai con il mutuo o l’affitto, la sveglia suona tardi perché alla sera ti corichi di nuovo: tardi, non c’è abbastanza smart working da fare, i capelli, messi sempre peggio, sono un disastro, il riflesso dello specchio, tutto, è un disastro, di fronte, proprio nel palazzo dirimpetto, al piano terra, una nuova vicina, e poi mangi, il solito, l’inviato del TG1 porta sempre la mascherina sul mento, Trump mentre parla circondato da mascelloni americani ha sempre una cosa rossa intorno al collo (la cravatta), nessuno canta più dai poggioli, il bonus di 600 €, ok, la cassa integrazione, ok, ma poi?, il pomeriggio, è brutto, è vuoto, un po’ di flessioni, un po’ di libro, un po’ di bicipiti, un po’ di libro, a caso, senza senso, per fronteggiare una pigrizia che è risacca, risucchia, la vicina, chissà come si chiama, prende il sole nel piccolo giardinetto, il suo appartamento una volta era una parrucchiera, poi ci sono stati degli africani che giravano sempre mezzi nudi, poi il vuoto, ancora, poi lei, e poi le 18:00, che belle le 18:00, l’ora del bollettino, la polo della Protezione Civile, il bollettino: trecento, quattrocento, cinquecento, seicento morti, la gente muore dentro caschi per palombari, c’è il tempo, assolutamente, per un altro bollettino, nel proprio lettino: quanti soldi ho da parte? Cosa succederà? Quindi?, ecco, l’inviato del TG1 continua ad avere la mascherina sul mento, Johnson ha la capigliatura di uno che ha passato parecchie ore sul bancone del Temple Bar, su Facebook fioccano meme a proposito di, sicuramente Instagram è per chi è drogato di visibilità ma TikTok è anche peggio, l’ora d’aria, alla finestra, dalla sua porta-finestra si intravede un bagliore arancione, cani portati al guinzaglio da umani maschero-dotati, è una serata tiepida, un cane abbaia ad un piccione che fa l’equilibrista sul filo della luce, il padrone lo tira via, c’è questa cosa strana che aleggia, un fantasma si aggira per il mondo, si può pensare al passato, ad una vacanza magari, in Thailandia, a un bambino che vicino a Nana Plaza, seduto per terra nei pressi di un attraversamento, fingeva di sniffare della colla per impietosire i passanti e racimolare qualche baht, ma no, ma sì, è bello ricordare, un’altra volta a Kyoto, sulla sponda di un fiume che costeggia Pontochō, dei ragazzi in cerchio con la chitarra, mmm, il portatile sullo sterno, pietra tombale, scrivere un romanzo, che cazzata, guardare un film, a patto che sia intenso, vivo, sanguinante, scrivere del film allora, altra cazzata, hot teen fucked by black cock, meglio spegnere tutto, anche lei ha spento tutto, c’è un gatto in strada che scruta una dimensione parallela che gli si è aperta davanti, si torna all’inesorabile sarcofago notturno, una nonna diceva che è bene dormire come fanno i sommergibilisti, chissà cosa voleva dire, ore 02:34, momento di bilanci, no, i bilanci non conciliano il sonno, il frigo in cucina si autosbrina tirando colpi che schioccano sinistri, leggera fame, settecento, ottocento, novecento morti, i camion dell’Esercito, i preti inermi, il terrore negli occhi della Azzolina, parenti di conoscenti in terapia intensiva, le previsioni degli esperti, i picchi, Burioni che parla al plurale, gente sulla metro di Wuhan, i tamponi, salme abbandonate fuori dalle abitazioni in Ecuador, spillover, un teschio che si fa chiamare Fontana, il centro storico della mia città (labirinto malinconico, senza Minotauro, senza Teseo), il centro di me stesso, disperso e raggelato.
Ma non ti preoccupare, questi sono i giorni, questi sono giorni, questi giorni sono, questi giorni che non sono giorni né sono notti...

sabato 18 aprile 2020

Ma' Rosa

L’ultimo incontro ravvicinato che ho avuto con Brillante Mendoza risale a Thy Womb (2012), un film, per ciò che ricordo (poco), in linea con la sua idea di cinema immersa nel reale, e non una realtà qualunque ma quella povera e problematica delle Filippine. Tenendo bene a mente queste caratteristiche connotanti si può subito dire che Ma’ Rosa (2016) continua a battere il medesimo percorso intrapreso dal regista nato a San Fernando fin dagli albori, ed estromettendo un paio di dimenticabilissimi titolacci iniziali, col tempo Mendoza ha affinato il suo sguardo specializzandosi in quel cinema-del-reale che vanta fior fiore di esponenti in tutto il globo. Oh, il signor Brillante non è un’esteta, almeno non nell’accezione classica che si ha del termine, sebbene i suoi lavori un’estetica ce l’abbiano, e anche piuttosto definita, ma si tratta di apparati formali che, per via di budget molto risicati (ad esclusione – presumo – di Captive, 2012), non possono certo essere definiti “belli”, ciononostante una bellezza ci arriva e tale bellezza si può desumere dalla verità delle cose che si susseguono sullo schermo al ritmo della vita, magari in un quartiere disagiato di Manila, magari dentro ad una famiglia che gestisce un negozietto e che per campare spaccia droga sottobanco, magari nell’omerica serata dentro agli uffici della polizia locale, e quindi succede che dal nulla veniamo catapultati nell’esistenza di alcune persone in lotta per la sopravvivenza urbana, niente sembra facile per loro e la prassi mendoziana, che da buon testimone oculare si interessa a mostrarci quanto più gli riesce, si esalta nelle tensioni, nei nervosismi, nelle paure dell’istante, nelle concitazioni, nei raptus, nei blitz notturni sotto la pioggia scrosciante. La formula è assodata, se la conoscete saprete già in anticipo di che pasta è fatto Ma’ Rosa.

Ecco, se Tarantino, e non solo lui, era rimasto impressionato dalla visione di Kinatay (2009), lo si doveva probabilmente ad un effetto novità, ad un approccio alla materia filmata in un dato contesto geografico che ci aveva stuzzicato il palato, il punto è che poi Mendoza si è autorecintato in uno stile che da una parte lo identifica e che dall’altra lo rende un po’ prevedibile, anzi no: che lo rende meno efficace, meno potente di quanto potrebbe essere. La riproposizione di un usus scribendi pressoché inalterato opera dopo opera non si potrà considerare come un vero e proprio difetto, però al sottoscritto pesa più la scelta di non tentare altre metodologie di trasmissione che le mancanze vere e proprie riscontrabili nel girato, perché Ma’ Rosa, al pari delle altre pellicole, è ben lontano da una possibile perfezione, qui si ravvisa un non totale equilibrio tra la prima parte, frenetica e rabbiosa, dove la presa asfissiante sulla concretezza della situazione è tangibile (l’irruzione della polizia; la deportazione al commissariato), e la seconda parte (all’incirca dopo il pestaggio del pusher) in cui Mendoza allestisce alcune parentesi narrative che non hanno l’energia della miccia iniziale (mi riferisco agli stratagemmi adottati dai figli per racimolare il denaro necessario), del resto credo sia evidente che Mendoza dia il meglio di sé nel catturare la realtà piuttosto che nell’inscenarla. Dunque abbiamo una struttura iniqua? Uno sbilanciamento? A mio avviso sì, però, visto che parliamo di un film a suo modo generoso, sono questioni su cui si può soprassedere, il viaggio low-cost, umbratile, umido, tendente alla disperazione, verace e, nei limiti della finzione, sincero, non ci fa reclamare indietro le quasi due ore che gli abbiamo dedicato, il pianto liberatorio di Rosa nel finale ha una dignità filmica da ammirare, peccato solo che confezione e farcitura rientrino nell’ordinario dell’autore filippino, mi piacerebbe vedere qualcosa che si stacchi da suddette coordinate.

giovedì 16 aprile 2020

Poet on a Business Trip

La curiosità prima della visione nei riguardi di Shi ren chu chai le (2015) nasceva dal fatto che questo film fu girato nel lontano 2002 dal cinese Anqi Ju, regista classe ’75 che tenne la sua creatura in naftalina per più di dieci anni a causa di insufficienze economiche relative alla fase post-produttiva; viene subito da pensare che non sarà questo l’unico caso di oblio prolungato nell’ultra centenaria storia del cinema però si può dire che non sia nemmeno un evento all’ordine del giorno e pertanto è da qui che poteva muoversi un iniziale fascino verso la pellicola, purtroppo mi sento di affermare a titoli di coda terminati che l’interesse preliminare non trova un riscontro pratico nell’effettivo svolgimento del film. Di scusanti per Anqi ce ne sarebbero a iosa, d’altronde parliamo di un lavoro davvero minimale che sposta l’ago della catalogazione dal professionismo ad un altro step che potrebbe essere quello degli avanguardisti, zero troupe, zero (o quasi script), una videocamera, un tizio conosciuto in un locale underground per poeti arruolato come “attore”, tuttavia non vi sono affatto mire sperimentali, anzi la traiettoria persguita è quella di un reale asciutto e senza manipolazioni eccessive (a parte il b/n e la sovrimpressione delle poesie che scorrono sullo schermo), più Anqi Ju si sintonizza sulle frequenze umane e naturalistiche più il suo disegno si fa evidente: captare un malinconico pellegrino nell’aspro paesaggio della Cina settentrionale abitata da contadini, albergatori di frontiera e camionisti in cerca di bordelli, e la questione meretricia pare avere un peso importante nell’opera, lo rimarca il regista in un’intervista (link), lo capiamo da noi annotando la somiglianza tra l’inizio e la fine.

Tutto, sulla carta, alquanto stuzzicante, eppure Poet on a Business Trip rende faticosa la sua proiezione, non ha tiro, scorre, tedia, non tocca, e proprio nell’area emotiva fallisce ogni intento. Perché va bene l’idea di un road movie atipico con annesso, lesto, ritratto degli abitanti locali e delle bellezze geografiche, ma, come da manuale, un viaggio non è tale se il movimento pur esplicitandosi esternamente mantiene una controparte invisibile diretta invece nell’animo dell’uomo. Nel film un moto del genere è intuibile e vi sarebbero anche gli elementi adatti ad una conseguente manifestazione, infatti parliamo comunque di un poeta che erra per luoghi desolati in cerca di un senso ampio come la vita divisa tra piccolezze e infinitezze, ma risulta doveroso sottolineare che l’auspicata dimensione intima non trova alcun sbocco concreto, è come se della profondità appena avvertita rimanesse un’illustrazione bidimensionale, non si riesce ad andare nell’oltre, né a far sì che l’oltre converga in noi. Sono critiche banali? Sterili? Vuote? Quando un film ha del potenziale non sfruttato il rapporto con esso si fa conflittuale, forse è peggio ancora di trovarsi al cospetto di un brutto film tout court, “poteva...”, “se...”, “eeh...”, dei micro-rimpianti riempiono queste ultime parole, ma in fondo di che rimpianti si tratta? Suvvia, avanti col prossimo che il girovagare di Shu è già un pallido ricordo.

martedì 14 aprile 2020

Third Kind

Yorgos Zois si lancia nella fantascienza, ma, a dispetto del titolo che richiama esplicitamente Spielberg (e non solo il titolo visto che il “contatto” tra uomo e... uomo avviene per mezzo di un motivetto musicale: lo stesso di Incontri ravvicinati del terzo tipo [1977]? Non lo so, lascio agli esperti l’onere della conferma), la fantascienza di Zois è più tarkovskijana per via di una serie di elementi che, usando tale aggettivazione, potrete facilmente immaginare. Per cui Third Kind (2018), scritto insieme alla brava Konstantina Kotzamani, si interessa di umanità, o meglio di quel che ne rimane sulla Terra dopo un esodo che ha costretto i suoi abitanti a migrare nello spazio. Lo scenario è quello di un aeroporto abbandonato percorso da tre astronauti che parlano tre lingue diverse, gli ambienti sono ampi e Zois si premura di rendere i soggetti in scena ancora più piccoli di quanto già sono, l’andamento è compassato, gli esploratori incedono timorosi e al contempo affascinati dalle reliquie del passato (“stranamente” c’è ancora dell’elettricità e una tv su un tavolino, una volta accessa, trasmette così a caso immagini appartenenti a quel luogo...), poi, d’un tratto, si delinea il senso del cortometraggio, che è, in realtà, politico, attualissimo. Sulla scorta del titolo appena precedente Εighth Continent (2017), Zois si avvicina al tema-migranti inquadrandolo in un contesto sci-fi e rovesciando un po’ la situazione contemporanea, infatti qui sono gli occidentali, se così possono essere definiti, che migrano verso un altro posto, cambia la ragione dello spostamento dove non ci si muove per migliorare la propria vita ma per provare a comprenderla.

Il nocciolo del film è dunque questo e non pare al sottoscritto che ci sia altro in cui poter accedere. Le modalità usate dal regista greco per far sì che il sottotesto ci induca a ragionare su cosa vediamo, sono, seppur dotate di encomiabile professionalità, abbastanza ordinarie, si registra una fotografia giallognola sottilmente tossica, da raggi solari per cui varrebbe la pena coprirsi un attimo, e rimane qualche scelta che non dispiace, si veda l’inaspettata filodiffusione del canto arabeggiante o l’allestimento della tendopoli che ha un che di spettrale, è comunque tutto troppo diretto, anche se celato dietro l’apparato futuristico, il discorso così impostato si fa letterale, manca una vera apertura, manca la piena capienza della visione, e quindi profondità, immersione, sentimento. Però, per dare il giusto merito a Zois, poco prima della fine abbiamo un bell’esempio delle potenzialità del cinema che può replicare con inusitata efficacia dei ricordi personali senza bisogno di didascalie, anzi, addirittura riducendosi a quadrato circondato dal buio, mette in successione l’inferno di una tragica traversata come tante, è una sequenza che crivella un lavoro altresì manualistico, un’apprezzabile zampata che graffia la rigidità della finzione. Finale scenografico e forse non necessario (non mi stupirei se fosse stato pensato dalla Kotzamani), giudizio in bilico e l’evidenza che a Zois, anche alla luce di Interruption (2015), non frega granché di cavalcare l’onda ellenica, il che lo prendo come un dato positivo.

domenica 12 aprile 2020

Abendland

Dal regista di Homo Sapiens (2016), l’austriaco Nikolaus Geyrhalter, recuperiamo un lavoro del 2011 intitolato Abendland e se da bravi scolaretti apriamo Google traduttore per infilarci dentro proprio la parola tedesca “abendland” scopriamo che il suo significato in italiano è “occidente”, poi, sempre da diligenti allievi quali siamo, associamo il titolo alla locandina che ci mostra il Vecchio Continente in tutta la sua notturna bellezza per ottenere delle coordinate orientative: siamo in Europa, ma la didascalia finisce qua, Geyrhalter, vero globetrotter della regia, non pone mai sul suo lavoro il benché minimo commento, è un documentario che pota tutte quelle interferenze esplicative che solitamente sono parte integrante del genere di riferimento, ed un’assenza di indirizzamenti precisi è una bella occasione per uscire dalla comfort zone spettatoriale, sicché cosa è utile desumere da Abendland? Con gli occhi di una persona che vive negli anni ’20 queste immagini, sebbene risalenti a non più di un decennio fa, hanno un che di antiquato, è più una sensazione, un’idea che di riflesso certifica come i nostri tempi, grazie alla tecnologia, viaggiano ad un ritmo infernale, l’altra faccia della medaglia, che si evince dalla messa in serie di Geyrhalter, è che comunque, a prescindere da un progresso che invecchia l’estetica nel giro di due lustri, ci sono situazioni, e problematiche, che permangono, che rispetto ad un’evoluzione circostante non solo ristagnano ma si ripropongono, magari sotto forme e in frangenti diversi senza però perdere la loro cifra impattante.

Perché tra le molteplici sequenze lavorative che Geyrhalter propone c’è una sorta di filo conduttore che si estrapola dalla lunga carrellata in video, infatti, pur assistendo alle professioni più disparate (camerieri all’Oktoberfest; operai in una aerostazione; preti in udienza dal papa; operatori telefonici; inservienti di una casa di risposo, eccetera eccetera), ecco, nella ripresa di queste persone affaccendate a svolgere il proprio mestiere ne spiccano altre impegnate in mansioni differenti che però orbitano in una vasta area inerente a tematiche come la sicurezza pubblica, il controllo, l’ordine cittadino e il monitoraggio. L’imbeccata ce la dà la prima scena con un tizio che dentro ad un camioncino scruta con una telecamera il nulla che lo circonda, poi, disseminati qua e là durante la proiezione, faremo conoscenza con poliziotti, guardie, addetti del settore o simili. La domanda che sorge è fino a che punto un iper-controllo di siffatta portata può considerarsi lecito, etico (tanto per dire, al tempo di Abendland i cosiddetti captatori informatici non erano così in auge come ora, giusto a rimarcare come le cose possano stravolgersi in fretta), al pari di una iper-protezione che ci fa sentire tranquilli e al sicuro, ma al sicuro da chi? Uno spunto di riflessione ricade sull’insoluta questione dei migranti, una ferita difficilmente medicabile che abbraccia una complessità di scenari inimmaginabili (c’è un dialogo interessante tra un ragazzo nigeriano e l’incaricata di un’organizzazione umanitaria), Geyrhalter instilla gocce di questa complessità sociale e politica che si palesa ogni giorno sul territorio europeo (non solo migranti, ma anche, ad esempio, manifestanti pro/contro-qualcosa). Il fatto è che quando si verificano accadimenti straordinari come un attentato terroristico o un virus invisibile capaci di distruggere la quiete continentale improvvisamente non ci sentiamo più al sicuro, basta poco per ribaltare la percezione del pericolo, avvertiamo protezione solo fino a che gli elementi esterni sono lontani da noi, se bussano all’uscio di casa: aiuto! E allora il massiccio dispiego di forze che Abendland mostra a che serve? Fedele alla linea Geyrhalter non dà riscontro preferendo inoltrarsi nell’ambiguo finale di una folla danzante incurante di tutto e di tutti.

venerdì 10 aprile 2020

I Cormorani

La formazione professionale di Fabio Bobbio (Ivrea, 4 maggio 1980) è, almeno per quanto si è potuto vedere, un valido biglietto da visita per via delle collaborazioni strette con Daniel V. Villamediana ne La vida sublime (2010) e con Mirko Locatelli – qui produttore attraverso la Strani Film – ne I corpi estranei (2013), quindi il lungometraggio di debutto del regista piemontese non poteva non rivolgersi ad un cinema che ormai è un canone conclamato, ossia un luogo di convergenza tra la finzione e la realtà che si fa ibrido, in equilibrio su un crinale che da un versante rappresenta (ce lo rivela nel pre-finale lo schizzo d’acqua che colpisce la videocamera) e dall’altro intercetta, coglie, assorbe. Negli ultimi anni in Italia ci sono davvero parecchi titoli che si potrebbero portare ad esempio, il primo che sovviene vista l’ambientazione fluviale, un medesimo approccio linguistico e una sovrapponibile attinenza tematica è L’estate di Giacomo (2011), anche ne I Cormorani (2016) il substrato realistico su cui l’opera poggia è una base inamovibile, ed uguale è l’orientamento verso un’età acerba doppiamente impersonificata da Samuele e Matteo, due ragazzini colti nella loro estiva e ciondolante esistenza tra boschi, tangenziali e centri commerciali per mezzo di una prospettiva che cerca di mantenere intonso il tasso di spontaneità, in tal senso Bobbio sacrifica – giustamente – le costrizioni algoritmiche della banale scrittura per attingere al vissuto degli adolescenti che osserviamo necessariamente da “esterni”, sicché dei bisbigli, delle frasi inghiottite da ugole ancora imberbi e dei riferimenti a terzi (compagnetti, fidanzatine) non sapremo niente, perché nei Cormorani non è il cinema ad aver accolto le storie che palpitano soffuse nel territorio canavese bensì l’opposto, constatazione un po’ ovvia, ne convengo, che comunque va puntualizzata.

Il significato che sta dietro ad una vicenda del genere, probabilmente ce ne sono diversi ma uno svetta sugli altri, ossia la fotografia in movimento di un passaggio generazionale, è un concetto che si manifesta nella naturalezza insita nel film, non siamo nel simbolico, almeno non in maniera sfacciata, semplicemente siamo con Matteo e Samuele mentre vivono, e perciò viviamo anche noi. Non c’è bisogno di un particolare impegno esegetico nel girovagare del duo, l’avventura rima al massimo con dei segnali che suggeriscono la penetrazione di ulteriori mondi, di ulteriori bisogni nel guscio dorato che li protegge ma dal quale, per istinto ed esigenza, vogliono e devono uscire. La spia che più esemplifica una propensione a venir fuori dal sentiero conosciuto è il turbamento sessuale che Bobbio idealizza in una prostituta, la gestione degli impulsi testosteronici prosegue nel delicato solco tracciato ed è oggetto dell’unico potenziale superamento del reale quando un controcampo mette di fronte ai ragazzi il corpo nudo di una donna, o l’immaginarsi di tale corpo. È un momento nevralgico: è il primo contatto ravvicinato, nel film, con un adulto nonché il concretizzarsi di un desiderio recondito, e intelligentemente il regista attacca di seguito una sequenza che si specchia al rovescio, una spensierata e pura corsa in bicicletta accompagnata dalla morbida voce di Massimiliano Cranchi.

Luca Pacilio a proposito de I Cormorani ha scritto: “[...] mirando più alla ricerca della temperatura emotiva delle situazioni in gioco che alla costruzione di quell’intreccio a cui quasi tutto il cinema italiano crocifigge i suoi lavori” (link), è una riflessione che sento di condividere in pieno perché centra il cuore di un progetto che, per l’appunto, sa adagiarsi su un battito non solo cardiaco ma anche naturale e sentimentale. Fare comparazioni con altri film meno intraprendenti è superfluo in quanto così è e così sarà sempre, ciò che chi scrive apprezzerebbe molto è un cambio di comprensione di taluni esemplari cinematografici come I Cormorani che nel panorama spettatoriale dovrebbero figurare la normalità e non l’eccezionalità (che spetta alle avanguardie, a chi sperimenta anticipando), ma è una lotta donchisciottesca, prendiamo quello che viene con la stessa innocenza di Matteo e Samuele: la vita, e quindi il cinema, può e deve essere una continua scoperta.

(il brano I Cormorani, contenuto nell’OST ascoltabile qui, se fosse stato firmato dai Mogwai o chi per essi avrebbe mandato in visibilio i redattori di Pitchfork e similari)

mercoledì 8 aprile 2020

Ad Astra

 
Il Paul Tunge di Kano (2011) ci conduce in un tour esplorativo/contemplativo di alcune chiese (ben quattordici a leggere i crediti finali) sparse sul territorio norvegese. Parliamo di costruzioni avvenute nel dopoguerra e che esteticamente non hanno affinità con l’idea classica che si ha di una chiesa, quelli ripresi da Tunge sono tutti edifici moderni dalle forme avveniristiche che si protendono verso il cielo a mo’ di vele riflettenti. L’impressione che ho ricavato da Ad Astra (2016) è quella di un’osservazione artistica che vuole considerare questi templi contemporanei delle vere e proprie cattedrali nel deserto, luoghi imponenti ma abbandonati, o meglio: non frequentati. Potrebbe essere qua l’idea alla base del corto, nell’assenza di fedeli (non ci sono esseri umani, a parte uno affetto dalla sindrome di Down che mi piace immaginare nelle vesti di custode), nello smarrimento di una religiosità, qualunque cosa possa significare, rimangono dei palazzi maestosi, ma vuoti, o al massimo circondati da cani che guardano con sospetto la fluttuante videocamera di Tunge. Per paradosso, pur occupando uno spazio fisico ben evidente (eccone una al di là della finestra, eccone un’altra che svetta in fondo alla strada innevata), le suddette chiese si ergono ad esplicita mancanza, sono totem cavi a cui, non ci si stupirebbe, nessuno dà conto.

Tunge, aiutato in regia dal collega Egil Håskjold Larsen, decide di usare un approccio iper-dinamico per le riprese, non c’è stasi, c’è sempre movimento, morbido, galleggiante, un po’ malickiano se mi passate l’accostamento. È un vagare che ha del fantasmatico e che riesce a solleticare stati d’animo anche divergenti tra loro, se la panoramica degli immobili religiosi arriva ad essere quasi rilassante grazie all’interessante comparto sonoro elettronicamente graffiato per mano di Kim Hiothøy, le inquadrature rovesciate, l’ubriacante giravolta verso il finale (entrambe accompagnate da musiche adeguate), danno il la ad una strisciante inquietudine che trova approdo nell’inaspettata apparizione di una bara (bianca, per giunta), una visione che da qualche parte, una parte interiore e intima, chiude il cerchio di quel vagabondare ectoplasmico citato poc’anzi. E che tali sensazioni e pensieri scaturiscano da un’opera in cui, brutalmente, ci sono solo delle chiese e un tizio che si è messo in testa di immortalarle non dispiace affatto, il cinema è liquido e si infiltra dove meno te lo aspetti, anche in uno studio visivo di matrice architettonica.

lunedì 6 aprile 2020

Martin Eden

Non ho letto il Martin Eden di Jack London ma ho visto tutti (esclusi i cortometraggi) i lavori di Pietro Marcello, per cui in materia cinematografica sento di poter ragionare su basi più o meno solide e la prima cosa che mi viene da dire è che me lo aspettavo, sì, mi aspettavo che Marcello si volgesse completamente alla finzione perché c’erano stati dei segnali molto forti nel precedente Bella e perduta (2015), per lui, essenzialmente un documentarista a cui però non è mai piaciuto troppo stare dentro i paletti categoriali, è una novità di rilievo: il suo Martin Eden (2019) è un film di scrittura (e anche sulla scrittura, ovviamente), di cast, di narrazione, di sviluppo, di sottotesti, è quindi un’opera dall’impostazione classica che si rifà a sua volta ad un cinema classico che però, nel suo dispiegarsi, nel suo mostrarsi, nel suo raccontarsi diluisce la propria classicità, la stempera, letteralmente, con accorgimenti che confermano la voglia che ha Marcello di non sedersi dentro ad un’etichetta. La considerazione più istintiva, quella che concerne l’estetica, ci fa riflettere sulle capacità del regista che ha trovato in una pellicola dalla pasta vintage il puntuale contrappunto alle immagini d’archivio disseminate con perizia nel girato, in alcuni casi la contiguità è tale che si fatica a capire quando finiscono i filmati di repertorio e quando inizia la traccia principale del film, ma ciò non stupisce nemmeno troppo perché comunque Marcello, se ci ricordiamo anche de La bocca del lupo (2009), è uno che sa attirare lo sguardo, è un’abile manipolatore e lo dimostra anche qui dove il raggio di azione, per via dell’ingessatura finzionale, non poteva che essere maggiormente limitato.

Se gli inserti doc rapportati al flusso canonico vivacizzano la situazione, è anche il flusso stesso, e parlo proprio della sua essenza, a destabilizzare, ancora di più, i contorni tradizionali. L’ambientazione storica che inizialmente ci farebbe orientare in un periodo collocabile verso i primi del novecento, nel suo prosieguo è alterata in modo da rendere la ricostruzione atemporale, praticamente astratta (succedeva in modo un po’ confuso anche nel film precedente), senza calcare la mano (e ciò è sempre un bene), in modo appena percettibile, Martin Eden scivola in sordina da un periodo all’altro del ventesimo secolo, dagli anni ’10, in un battibaleno, si passa agli anni ’60-’70 come se fossimo in un film di Elio Petri, ma, ripeto, la traslazione è minima, rischia di sfuggire, eppure è presente, è lì, e sono presenti, anche, dei salti mortali in avanti fino ai giorni nostri con quelli che potremmo definire degli OOPArt [1] che non rientrano nella linearità della storia, si veda una specie di essere salviniano felpa-munito o delle persone di colore che bivaccano sulla spiaggia, sono scarti che ci allontanano con moderata sorpresa dallo standard preventivato, ossia la trasposizione di un testo datato 1909, ergo: ben vengano.

Ecco, per chi scrive gli aspetti che suscitano vero interesse sono quelli esplicitamente tecnici sopraccitati, ok, le storie sono belle da sentire ma ce le hanno già raccontate tutte, difatti anche per Martin Eden in questo settore non vi è nulla che possa farci ribaltare dalla sedia. Di carne al fuoco ce n’è in abbondanza: la prospettiva del riscatto sociale di un semplice marinaio che attraverso la letteratura realizza i propri sogni è carina, la trafila dello scrittore in erba che si trasforma in scrittore di successo è godibile, i tormenti interiori intrecciati a quelli sentimentali sono gradevoli, le incursioni filosofiche che si fanno sociologiche che si fanno politiche sono dignitose, il confronto impari tra un libero pensatore ed il sistema culturale che di culturale finisce di avere poco è didattico, Luca Marinelli è bravissimo, però tale fuoco non arde intensamente, non è un incendio che divampa, è una fiammella sotto controllo, anzi sotto il controllo dell’impianto finzionale e la carne non si cuoce a dovere e noi rimaniamo con un senso di illusoria sazietà.
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[1] Out Of Place ARTifacts, ovvero oggetti rinvenuti nel presente che non sembrano far parte del passato da cui giungono. Pseudo-scienza, concordo, ma pur sempre affascinante.

sabato 4 aprile 2020

La leggenda di Kaspar Hauser

Sono d’accordo con voi, che senso ha scrivere de La leggenda di Kaspar Hauser (2012) dopo tutti questi anni e dopo che chiunque possiede un minimo di interesse oltre il cinema da multisala l’ha già visto? Avrei potuto tranquillamente soprassedere visto che di parole ne sono già state scritte a fiumi e di sicuro le mie, poche e nient’affatto analitiche, non aggiungeranno granché all’esegesi sull’opera. Ciò da cui posso partire è il ricordo che ho al tempo della sua uscita in vari festival satellitari, il sito Uzak, nelle vesti del direttore Luigi Abiusi, ne decantò per mesi e mesi le presunte e/o effettive qualità, e a mano mano che le persone riuscivano a metterci gli occhi sopra i commenti positivi non faticavano a fiorire, si era creato sostanzialmente un certo hype per il sottoscritto, un’attesa che nel frattempo era stata mitigata recuperando i lavori passati di Davide Manuli, Girotondo, giro intorno al mondo (1998) e Beket (2008) da cui si era palesata una traiettoria artistica di ammirabile entità, poi chi scrive è sparito per diverso tempo, ha chiuso bottega e del Kaspar Hauser manuliano, sebbene visto, si era persa traccia nel lungo periodo di chiusura del blog.

La seconda visione, avvenuta qualche settimana fa, non ha cambiato di troppo le impressioni che scaturirono dalla prima, in sintesi continuo a non concordare sulla capolavorità del film in oggetto, certo ne riconosco i pregi che vanno a situarsi in un’impronta visiva dal forte impatto e in un annientamento del racconto canonico, così come non sono niente male le cavità metafisiche (c’è lo zampino di uno dei migliori scrittori italiani della nostra epoca, Giuseppe Genna, e non per niente un capitoletto della pellicola si chiama “io sono”, titolo di un suo libro edito nel 2015 da Il Saggiatore) e quelle religiose (i siparietti con i monologhi del prete Fabrizio Gifuni sono tra le migliori cose disponibili), il connubio dei suddetti elementi potrebbe far apparire lo sforzo di Manuli come innovativo cosa che invece a mio avviso non è. Il cinema da lui proposto ha indubbiamente preso una strada autoriale e personale identificabile al primo sguardo, tuttavia permane un forte retaggio di altri registi che l’hanno preceduto, e non si può non citare il duo Ciprì & Maresco (il personaggio dal collo abnorme sembra uscito dritto dritto da Cinico Tv) o, per volare più in alto, Straub & Huillet, tali riferimenti ben si rintracciavano anche nei lungometraggi precedenti e la speranza, disattesa, era che ne La leggenda di Kaspar Hauser si potesse compiere uno step oltre, c’era, in pratica, la necessità di andare al di là della conferma, di rompere, magari, per subito ricostruire qualcosa di nuovo. L’assenza di un marcato cambio di passo è il motivo principale che non mi ha fatto sentire ciò che invece altri hanno sentito, non so non so, a volte la linea della soggettività è proprio labile, mah! Spero che Abiusi non me ne voglia troppo per un affronto del genere, oh, a mia discolpa posso affermare che la colonna sonora mi è piaciuta parecchio.

giovedì 2 aprile 2020

Prehistoric Cabaret

Prehistoric Cabaret (2014) è un qualcosa (e che cosa sia, nello specifico, non saprei dirlo) che andrebbe sempre anteposto ad un nuovo film di Bertrand Mandico, questi nove minuti e rotti secondi nella loro ridotta dimensione sono una via di mezzo tra il manifesto programmatico e le istruzioni per l’uso. Brevemente: siamo in una specie di night club (nelle sinossi in Rete si dice che ci troviamo in Islanda ma io francamente non ho trovato riscontri) e l’anfitriona del locale (Elina Löwensohn, presenza fissa nelle produzioni di Mandico) invita un gruppetto di insonnoliti astanti a seguirla in un viaggio che li condurrà fino al centro della Terra. In realtà il tragitto è breve ma non meno recondito, con quello che probabilmente è un butt plug mascherato da videocamera, la donna protagonista si autopenetra per realizzare una colonscopia dagli artistici effetti. Ciò che il pubblico dell’affumicato club vede (e quindi noi con loro) fin dentro l’ugola della donna sono delle interferenze autoriali, dei lampi di estro, delle parentesi che si affacciano su strani mondi prettamente mandichiani, ma si tratta giusto di istanti, di strane scritte che sembrano (o magari sono a mia insaputa) i titoli di qualche opera di genere degli anni ’70-’80.

In tal senso è quasi palese il motivo per cui Prehistoric Cabaret non è un’introduzione ma L’Introduzione all’universo del regista di The Wild Boys (2017) che, impersonificato dalla figura dell’intrattenitrice, ci dice, non senza ironia visto che la via d’accesso sarebbero le sue... terga, quanto ogni lavoro da lui firmato (leggi: ogni viaggio al centro non della Terra ma del cinema che propone) sia un percorso che non prescinde mai da un preciso bagaglio culturale proveniente dal passato e da definiti elementi connotanti radicati nel presente (mi ripeterò ma ecco, ancora, quel curioso erotismo, quelle manifatture caserecce, quell’atmosfera d’antan oculatamente confezionata). Insomma, dietro l’apparente nonsense il senso è, piaccia o non piaccia, tutto autoriflessivo, pienamente in linea con l’idea di settima arte che il francese sta portando avanti da un paio di anni. E se non ne siete convinti a chi credete siano rivoli i reiterati “did you like it? Then, say it!” che autisticamente chiudono il corto se non agli spettatori in carne ed ossa al di qua dello schermo?