Il preambolo
che il sottoscritto deve fare, e che è il medesimo esplicitato per
Living Still Life (2012),
riguarda un fatto incontestabile: la bravura di Bertrand Mandico
nell’aver costruito un universo cinematografico squisitamente
personale, ma appurato ciò continuo, per motivi di gusti e
aspettative, a sentirmi non dico lontano, ma nemmeno troppo vicino al
suo fare artistico. Non annoierò sulle motivazioni di una tale
distanza perché non è questa la sede opportuna, ad ogni modo mi
sembrava corretto metterlo in chiaro come memo per quanto invece
seguirà sotto.
Ragionando
sul curriculum del francese, bello folto finanche invisibile ma non
si dubita una continuità stilistica da un lavoro all’altro, Les
garçons sauvages (2017) non
sorprende nemmeno troppo se si ha già avuto qualche incontro
ravvicinato con Mandico, il suo lungometraggio di debutto è infatti
un nodo in cui convergono i cortometraggi precedenti con tutta la
loro carica anarchica e carnacialesca. Parliamo di un cinema che
ammoderna un’impronta visiva del passato remoto (ogni ripresa
subacquea qui presente rimanda a L’Atalante,
1934) in un procedimento non dissimile dalle manifatture di Guy
Maddin, non si parla, per Mandico, di esposizione, ma di
sovraesposizione, ci viene data la conferma, fotogramma dopo
fotogramma, dell’artificio, dell’artefatto, è un gioco che
rovescia il contratto con lo spettatore il quale, da che cinema è
cinema, è sempre stato “cieco” alla contraffazione operata dal
regista di turno, pur sapendo che è tutto finto l’impianto
formale, in genere, non tradisce la propria natura farlocca, non si
espone, tende al realismo, alla sovrapposizione di quello che c’è
oltre lo schermo. The Wild Boys,
all’opposto, esibisce i suoi trucchetti (anche artigianali), non ha
e non gli importa avere filtri realificanti, si mostra sfacciato ed
esuberante nell’ostentare fondali fittizi e miriadi di altre
trovate che proiettano il film in una dimensione diversa, atemporale
e aspaziale, è una pellicola-macchina-del-tempo che in un istante
trasporta da Méliès a qualche intrepido sperimentatore amante del
vintage.
Con
un minutaggio così corposo Mandico ’sta volta era obbligato a
lavorare in modo sostanzioso anche sulla scrittura. Forse è proprio
in questo ambito che abbiamo una sopresa perché se ci si aspettava
un’opera esclusivamente orientata ad un’imperterrita
estetizzazione, be’, così non è, inoltre, constata la presenza di
un racconto ecco, a metà proiezione, l’inserimento di un
sottotesto. Andando per gradi: inizialmente la storia, lisergica e
deviata (il fantasma di Borowczyk – a cui Mandico dedicò il corto
Boro in the Box
[2011] – aleggia sibillino), assume una piega “formativa”, nel
senso, ci sono cinque ragazzetti terribili che per essere rieducati
vengono spediti su una barca guidata da un carismatico capitano, le
stranezze esondano (il pene-mappa del suddetto capitano vince a mani
basse) ma, volendo, si potrebbe vedere nell’avventura della ciurma
nient’altro che la rielaborazione di un classico salgariano.
Tuttavia, dopo l’ammutinamento, la pelle, ed il correlato cuore di
Les garçons sauvages,
si e ci getta nel contemporaneo, capiamo di non avere più a che fare
con una visione post-moderna di Stevenson, o almeno non solo, e
capiamo sopra ad ogni cosa che il percorso, il viaggio dei ragazzi,
non sottende alcuna formazione, piuttosto una trasformazione,
radicale. Per arrivare ad una tale conclusione Mandico si serve
dell’unico inganno che volutamente cela (i ragazzi sono
ragazze, sono cinque attrici affermate) fino al compiersi
dell’effettivo cambiamento fisico. Che cosa è dunque l’isola, il
luogo dove si sostanzia la mutazione? Che cosa rappresenta? Oltre a
quanto viene detto dal dottore(ssa) che la definisce un’enorme
ostrica, ed ecco già un riferimento al sesso femminile, mi piace
l’interpretazione di Luca Pacilio (link) che la intende come un
“gigantesco
simbolo dell’identità sessuale attuale, in costante divenire”,
concetto applicabile al film stesso che nel sortilegio da alchimista
in cui è imbevuto si permette di lanciare un monito ai posteri: “lui
credeva che un mondo femminilizzato avrebbe fermato guerre e
conflitti” […] “il futuro è donna, il futuro è strega”.
Anche se non è più e
non sarà in futuro il cinema che amo vedere, dare una chance a Les
garçons sauvages e
a Mandico tout court è d’obbligo (mi piacerebbe non poco visionare
i numerosi corti precedenti), parliamo di esemplari vivissimi e
traboccanti di un estro nient’affatto comune dove ritmi vertiginosi
e brillanti soluzioni estetiche si amalgamano in un’orgia scatenata
e in perenne fibrillazione, il tutto innaffiato poi da un eerie
sporco, grezzo, sottilmente sordido. Per cui: sì, guardatelo.
Da guardare sì. ;)
RispondiEliminaPer me un film strepitoso!