Voglio
essere un tuffatore
per
rinascere ogni volta dall’acqua all’aria
(Flavio
Giurato – Il tuffatore)
Quando
qualcuno si introduce nel quadrilatero brulicante di prostitute, quel
qualcuno diventa Nessuno, quindi, forse, se stesso, un cacciatore, un
segugio, un’altra persona che è la vera persona custodita sotto
l’armatura della quotidianità, Nessuno non passa di lì per caso,
il filo d’Arianna che lo muove nel dedalo umido è una libido che
gli prende dentro, che lo incendia nell’immaginario erotico di
potersi accoppiare con una sconosciuta nei fondi ammuffiti di una
palazzina per qualche decina di euro, c’è solo una parola che
serpeggia da un crocicchio all’altro, ed è: “quanto?”, ma è
un sussurro flebile, un codice di intesa che connette individui
incanutiti con paffute señorite dalla
pelle caffelatte, nessuno, sempre lui, sempre Nessuno, viene qui per
compiere l’azione più decisiva di tutto il cosmo maschile,
scopare; lui, ora, sta invece pensando: “la prima cosa che le dirò
sarà che non sono venuto per scopare”. Un topo spelacchiato
attraversa la strada e si infila in un tombino a pochi passi da un
paio di zeppe alte così i cui piedi all’interno presentano una
fine smaltatura rossa, si avvicina cauto, come fanno tutti, e le
chiede se sa dove sia Maria Soledad, la ragazza rumina un po’ con
la gomma ed emette uno schiocco con la lingua che probabilmente
significa “no”, alle loro spalle c’è però un’altra donna,
con molti più anni e molti meno denti, che ridacchia di gusto
ripetendo continuamente sottovoce il nome di Maria Soledad, Maria
Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad,
Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria Soledad, Maria
Soledad, Maria Soledad, la litania diventa una sorta di mantra e gli
occhi della vecchia si trasformano in due uova sode e dalla bocca,
oltre ad una schiuma biancastra, fuoriescono queste parole: “la
porta verde”, e poi inizia a piovere fortissimo e nell’aria
rimpalla solo il rumore dei tacchi che picchiettano sui sampietrini
dei vicoli, allora lui comincia a camminare, dove: non lo sa, un
tuono sconquassa i secolari palazzi del quadrilatero, tutte le
prostitute, le Sante Madonne e le piccole figlie, si sono già
rintanate nelle alcove in subaffitto e sgranocchiando qualche patatina cercano di collegarsi via Skype con i parenti in Sud America,
l’uomo trova riparo sotto la tettoia di quello che un tempo era un
bar, per terra l’acqua forma dei rivoli che si portano dietro tutte
le confezioni di preservativi aperte e buttate via, tutti gli schizzi
di sperma e saliva necessari al compimento dei servizi, l’acqua
ripulisce il filo d’Arianna, spazza gli sciami invisibili di
feromoni, non c’è davvero più nessuno
ora, a
parte una persona disperata e sola da quindici anni. Dalla scomparsa
di sua figlia.
Si lascia alle spalle la porta verde per scendere delle scale che
conducono in un buio spaventoso, ma giunto a quel punto non ha più
paura, non può averne! Le indagini per arrivare ad un barlume di
verità gli hanno succhiato via ogni bene, sia fisico che economico,
è diventato uno scheletro coi baffi, mangia insieme ai gatti
randagi, ha passeggiato ore ed ore sotto il sole pensando a come poi
le cose sarebbero andate una volta arrivato lì, ha dormito in un
bosco atro per abituarsi alla possibile oscurità, è impazzito, no, non è impazzito, non gliene frega più
niente del mondo e per questo, quando dopo un corridoio illuminato a
intermittenza da alcune lampadine si ritrova di fronte ad un’altra
porta verde, la apre come se fosse quella di casa sua.
BREVE BIOGRAFIA DI LAKSHMINARAYAN KRISHNAMURTHY
Lakshminarayan Krishnamurthy nasce il 15 agosto del 2017 a Dharavi da
una coppia di immigrati pakistani che vive in una delle baracche
della zona. Terzo di quattro fratelli (tutti morti da piccoli a
causa di svariate infezioni non curate) all’età di tre anni perde
il padre rigattiere per via di un incidente stradale, di lui avrà
solo un vaghissimo ricordo che si dissolverà completamente in età
adulta. Fin da bambino dimostra una spiccata intelligenza e grazie ad
una ONG locale che permette ai più giovani di frequentare
gratuitamente lezioni di inglese e matematica, si appassiona
all’astronomia e passa intere nottate con il naso all’insù a
mangiare ciotole di ottimo kheer preparate dalla mamma mentre la
stessa pulisce latte di pittura che poi rivenderà ad una fabbrica di
vernici nei dintorni. Nel 2026 un evento lo cambia per sempre:
durante un’afosa giornata estiva passata a giocherellare con altri
amichetti fuori dalla casa, alcuni turisti occidentali passano
proprio affianco l’abitazione, dal gruppo si stacca una ragazza
bionda con una maglietta su cui si può leggere “University of
Illinois”, la donna si avvicina a piccoli passi verso
Lakshminarayan che, lercio e mezzo nudo, rimane immobile avvertendo
però dentro di sé una sensazione mai provata prima, e quando i due
sono uno di fronte all’altro una profonda forza interiore li spinge
ad abbracciarsi, lei inizia a piangere, lui, racconterà poi a sua
moglie, in quel momento ha capito per la prima volta che cosa sia la
felicità. A diciotto anni perde la verginità con un’orribile
prostituta di Mumbai, a diciannove si prende una cotta non ricambiata
per una coetanea che frequenta la sua stessa scuola, deluso da una
vita che non lo soddisfa nel 2037, grazie ad un’azione mondiale
orientata allo sviluppo della mobilità giovanile, riesce ad ottenere
una sovvenzione per iscriversi in un’università americana, la
scelta ricade su quella dell’Illinois. Quell’anno saluta la madre
che non rivedrà mai più e sbarca negli Stati Uniti per iniziare il
corso di ingegneria aerospaziale. Nel 2042 si laurea a pieni voti e
pochi giorni dopo la discussione della tesi un terremoto di
proporzioni bibliche devasta l’India uccidendo centinaia di
migliaia di persone, sente sua mamma l’ultima volta la sera prima
del disastro promettendole che di lì a poco sarebbe tornato a
trovarla. Tre anni dopo, mentre si trova in un bar di Springfield,
nota una chioma bionda che gli dà le spalle, avverte l’eco lontana
di un sentimento sopito ma mai cancellato, si alza dal tavolino
perché ha la necessità di guardare questa persona in faccia, ma in
quel momento qualcuno la chiama al cellulare e lei sgattaiola fuori
dal locale. Il trentesimo compleanno sarà il migliore di sempre,
secondo solo alla nascita dei suoi due figli gemelli: viene assunto
in un’azienda informatica che produce software per la
terraformazione di Marte, nel suo reparto, quello legato all’azione
degli agenti atmosferici, conosce Paolina Tharstakis, una collega di
origini greco-russe della quale si innamora perdutamente, l’amore è
corrisposto e nel giro di poco i due vanno a vivere insieme. Sono
anni belli ed irripetibili, pieni vita e libertà, Lakshminarayan e
Paolina si sposano e viaggiano tantissimo, scoprono mondi nuovi e,
contemporaneamente, scoprono se stessi, visitano Buenos Aires, Porto,
Città del Capo, Bangkok, e in Italia, precisamente a Genova, in un
piccolo hotel del centro storico, concepiscono i due figli che
nasceranno nove mesi dopo, è il 2050 ed Ela e Yorgos vengono alla
luce, quando Lakshminarayan stringe al petto i due frugoletti ripensa
alle notti passate a fissare il cielo con sua mamma intenta a
scrostare i barili e, semplicemente, piange di gioia. Il decennio
successivo scorre placido e sereno, i bimbi crescono e la carriera
lavorativa dei coniugi Krishnamurthy si consolida sempre di più.
Intorno al 2060 l’Europa è oggetto di una brutale sommossa da
parte degli stati mediorentali che attaccano il Vecchio Continente
sia dall’esterno, attraverso poderosi blitz militari da parte degli
eserciti turchi, iracheni, egiziani e sauditi, sia dall’interno per
mezzo di cani sciolti che come ai tempi dell’ISIS propagano terrore
tra i civili. È l’inizio delle terza guerra mondiale ed il governo
americano decide di sospendere i finanziamenti per gli studi sulla
vivibilità del suolo marziano. A quarantatre anni Lakshminarayan si
trova disoccupato, così come sua moglie. Però non perde fiducia e
in una notte d’agosto, mentre il respiro regolare della famiglia
addormentata lo rincuora e gli dà forza, decide di aprire un
ristorante indiano, all’inizio sembra una follia ma l’entusiasmo
e la lungimiranza che lo contraddistinguono fanno sì che in poco
tempo l’attività riesca a farsi un nome e grazie ad un
tambureggiante passaparola nel 2065 diventa uno dei locali più
apprezzati di Springfield, il posto migliore in tutti gli Stati Uniti
dove poter gustare del kheer. Nel giorno del cinquantesimo
compleanno, proprio durante la festa tenuta in suo onore, Laksy, così
ormai veniva chiamato, sente una fitta atroce allo stomaco e si
precipita in bagno a vomitare, tra i resti di torta nota dei
filamenti rossastri, ma poco dopo torna in sala ostentando la solita
pacata allegria. Inizialmente non viene dato peso all’episodio, ma
Paolina nota in lui dei significativi cambiamenti, l’uomo mangia
sempre meno e delega di sovente ad un amico le varie incombenze del
ristorante. Nel 2068 il conflitto mondiale finisce, l’Europa ne
esce distrutta ma in qualche modo viva, nello stesso anno a
Lakshminarayan viene diagnosticato un tumore allo stomaco. Inizia un
lungo calvario dove delusione e speranza sono gli stati emotivi che
si alternano senza sosta, a volte sta bene, come se niente fosse,
altre volte sta male e non riesce ad alzarsi da letto. Nei mesi
precedenti al decesso vuole scrivere un diario per lasciare una
traccia della vita che ha vissuto, ma le forze lo abbandonano presto
e nelle ultime pagine ripete confusamente il misterioso nome di una certa Maria
Soledad, di una non precisata porta verde e di una grossa
pesca succulenta. Alle 10:14 del 25 marzo 2070 Lakshminarayan
Krishnamurthy muore circondato dall’affetto di Paolina e dei figli
Ela e Yorgos, l’ultimo suo pensiero andrà a quella ragazza bionda
che lo abbracciò fuori dalla baracca di Dharavi.
“non sono venuto qui per scopare”, adesso si trova al centro di
una piccola stanza rischiarata da un abat-jour che colora l’ambiente
di toni caldi e accoglienti, alle pareti sono appesi piccoli quadri
che ritraggono fiori e case di campagna, di fronte a lui un grosso
specchio riflette la sua smilza figura, sul letto matrimoniale Maria
Soledad è sdraiata come se fosse in posa davanti ad un artista, il
pugno a sorreggerle la tempia, il corpo adagiato sul materasso
coperto da un lenzuolo giallino, il seno, strabordante, contenuto a
malapena da un corpetto di pizzo nero le cui spalline sono sfiorate
dai boccoli rigonfi che le incorniciano il viso, ha sui
cinquant’anni, molti dei quali, sicuramente, passati in quello
scantinato, però il rossetto color lampone, il fard che le leviga
la pelle e la matita nera intorno agli occhi le donano un aspetto in
un qualche modo ancora attraente. Guarda l’uomo che è giunto fin
lì, ne ha visti parecchi, tutti disperati, e a tutti ha sempre
risposto: nessuno viene a scopare qui, Nessuno viene per scomparire.
Lo fa sedere e gli offre un bicchiere d’acqua fresca, nell’aria
si diffonde un profumo estasiante, di violetta, di bucato asciugato
al sole, gli dice che sì, sua figlia, quindici anni prima, è
passata di lì, e lui subito: “Dove si trova ora? Ti prego mandami
da lei! So che puoi farlo!”, e lei con fare materno risponde che è
passato molto tempo e che non ricorda bene, forse è finita in
Ecuador, in una famiglia di delinquenti alla periferia di Quito, o
forse negli Stati Uniti ed è diventata un medico in Illinois, ad
ogni modo, anche se per puro caso si incontrassero di nuovo non si
riconoscerebbero, io, aggiunge Maria Soledad, sono solo una grondaia
che raccoglie le gocce di un diluvio universale, il mio potere è
limitato e non so nemmeno perché sono in grado di fare questo, non
so perché un dio sconosciuto me ne ha dato la possibilità, ma
adesso sei qui, davanti a me, e devi decidere cosa fare. Il padre è
sfinito, mentre ascolta in silenzio un film di immagini mute gli
scorre nel cervello e in ogni fotogramma c’è la ragazzina che ha
perso: “basta, me ne voglio andare, voglio cancellare tutto, ti
prego: fammi rinascere”. Allora la donna, nonostante una
corporatura non proprio esile, spalanca le gambe che tese a mezz’aria
presentano degli adduttori ben torniti, in mezzo alle cosce è
visibile una grossa pesca tagliata a metà senza il seme, lei lo
invita a inginocchiarsi al bordo del letto e a mangiare quel succoso
frutto, lui timidamente annusa la polpa gialla poi allunga la lingua
tastandone il dolce sapore, dopodiché mordicchia la parte centrale fino
a che i morsi si tramutano in addentate furiose, e più azzanna e più
gli sembra che non abbia mai fine, che il canale vaginale, l’utero,
la pancia e tutto il corpo di Maria Soledad siano diventati
un’immensa pesca tonda e capiente come la Terra, e quando gli pare
di essere finalmente giunto in fondo capisce che in realtà è solo
all’inizio: la stanza e la sua proprietaria sono svanite, lui
stesso, in quegli ultimi momenti di lucidità, sta svanendo come un
filo di fumo, avverte appena appena la leggerezza dell’inconsistenza,
forse il tepore di un grembo materno, i suoni sonici ovattati
dell’esterno, il proprio cuore che decelera rintoccando flebile,
fino al Nulla.
Riapre gli occhi in un altro tempo e in un altro spazio per
ritrovarsi minuscolo, insanguinato e urlante nella più grande
baraccopoli dell’India.