Più maturo rispetto ai
cortometraggi precedenti nonché “classico” antipasto al
lungometraggio di debutto (in questo caso The Tribe, 2014),
Yaderni wydhody (2012) ha quella piccola, si fa per dire,
qualità di non raccontare esplicitamente nulla, col suo fare
documentaristico Slaboshpytskiy è più che altro un intruso nella
vita di un camionista ucraino che vive e lavora, probabilmente senza
che vi sia una distinzione tra le due azioni, a Chernobyl.
Eppure nonostante il totale minimalismo accade che un qualcosa di
molto simile a una storia si rivolga verso lo spettatore, è una
fusione di elementi: prima di tutto l’ambiente, il quale sebbene
non ci venga detto che è quel-posto-lì suggerisce comunque un gelo
profondo e un senso di solitudine primordiale, poi la banalità di
una giornata lavorativa e la sua routine, successivamente l’intimità
che diviene procedura meccanica, e poi, ma solo poi, il duplice ma
connesso ritratto umano di un lui e una lei che plausibilmente non
smaltiranno mai le scorie radioattive che tentano di debellare con le
rispettive professioni.
Il
tragitto di Slaboshpytskiy ha per quanto mi riguarda una
certa coerenza e Nuclear Waste rappresenta una dignitosa
soglia autoriale, il frutto di un percorso che ha visto nel giro di
due corti la potatura di quegli apparati che indeboliscono il cinema,
se ripensiamo a Diagnosis (2009) viene subito a galla una
didascalia che alla fine giocava a sfavore delle fosche tinte
drammatiche inscenate, il successore Deafness (2010) si
disintossicava dalla letteralità preferendo l’annullamento
dialogico, buona scelta un po’ limitata per forza di cose sia dal
contenitore che dal contenuto, tutto ciò trova ossigenazione in
Nuclear Waste che si fa opera d’equilibrio e, per
ricollegarsi al trafiletto sopra, un nulla apparente che cela un
racconto che così come deve essere trova compimento nelle
riflessioni post-visione. Pur ignorando completamente tutto il
pianeta esistenziale che riguarda la coppia è come se in quel
glaciale rapporto sessuale si possa leggere molto di loro, è la
tenacia di un cinema che non impartisce ma che diffonde, e nello
scenario ibernato c’è anche lo spazio per un desiderio, quello di
essere madre.
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