mercoledì 30 agosto 2017

The Tribe

È dal 2010 con Deafness che Slaboshpytskiy sta cercando di portare avanti un preciso discorso sulle strade comunicative che caratterizzano il cinema odierno, non per niente anche il successivo corto Nuclear Waste (2012), sebbene privo del linguaggio dei segni, si focalizzava sulla scelta del totale mutismo, zero battute per gli attori in scena. Ovvio che tutto questo poteva e doveva trovare compimento in un lungometraggio, più precisamente nei centoventi minuti di Plemya (2014) la cui caratteristica fondamentale viene rimarcata all’inizio: attenti, qua non ci sono sottotitoli né spiegazioni atte alla comprensione dei gesti. A Slaboshpytskiy vanno riconosciuti dei meriti poiché attraverso The Tribe e ai due lavori brevi che lo anticipano ha dato dimostrazione che tra le varie potenzialità della settima arte ce n’è una spesso sottovalutata: il silenzio. D’altronde il cinema dopo il cinema muto non ha praticamente mai abbandonato la possibilità di raccontare per mezzo delle parole, e a ruota gli spettatori si sono cullati sull’ancoraggio fornito dagli scambi dialogici, una specie di sicurezza che garantisce didascalia e comprensione. Onore al regista ucraino quindi, e al “coraggio” messo in campo, Plemya utilizzando il canale del linguaggio dei segni, e perciò un metodo indecifrabile ai più, riesce a trasmettere le informazioni necessarie per leggere la storia tanto che in alcuni frangenti si è così inconsciamente sintonizzati sulle frequenze del film che non ci si interroga nemmeno più su che cosa si staranno dicendo i ragazzi dell’istituto. Ciò conferma un’idea che il sottoscritto si è fatto da tempo, ovvero che il cinema può fare a meno dell’attorialità e perfino dell’ostensione dei vocaboli, sono già sufficienti le immagini per costruire una narrazione.

Bene. Adesso le note stonate: appurata ed accettata una struttura teorica a cui è doveroso rivolgere attenzione, chi scrive non è rimasto particolarmente impressionato dal risultato che un tale impianto ha modellato. Ok il racconto per immagini, ma se andiamo ad analizzare il racconto in sé dobbiamo tirare fuori quella fastidiosa frasetta che risponde a “niente di che”, ed è un pelo grave che si risponda all’album di violenza, sottomissione e disumanità con tale noncuranza. Forse sarà una certa abitudine all’eccesso forgiata dalla massmedialità accerchiante, fatto sta che The Tribe, pur spingendo su una ferocia inaudita, non suscita uguale ammirazione se si paragona il cosa al come. Nel registro drammatico, contenente comunque momenti apicali (si riveda la scena dell’aborto o il finale davvero brutale), si affastellano episodi esplicitamente crudeli riguardanti bullismo, furti, prostituzione e via dicendo, una risultanza di azioni esecrabili che però non sconvolgono più di tanto, ad essere maligni parrebbe che Slaboshpytskiy, obbligato a tenere desta l’attenzione spettatoriale con modalità non verbali, abbia esagerato nella costante ricerca di un impatto emotivo ficcando ogni due minuti un qualche sopruso di vario genere. A mio avviso tale scelta riduce la forza dell’opera che così facendo, pur avendo qualità innegabili, si accoda al trenino del già visionato. Vedremo Slaboshpytskiy cosa combinerà in futuro, dubito continui a battere codesta via, non so se vi sia la necessità di un altro film come The Tribe.

2 commenti:

  1. Un cinefilo perduto nel buio...🤡30 agosto 2017 alle ore 01:07

    Grazie per questa visione ed "eviscerazione" del senso della pellicola. Mi ero ripromesso di affrontare il cinema di Slabo e lo farò!

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  2. ... cos'è quell'emoticon nel tuo nome? Doraemon? :D

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