lunedì 31 dicembre 2018

O kalyteros mou filos

Tranquilli, O kalyteros mou filos aka Il mio migliore amico (2001) è un film indecente per cui evitate di lasciarvi trasportare da intenti filologici, se vi piace il cinema di Yorgos Lanthimos allora non guardate assolutamente il suo lungometraggio d’esordio perché pur essendoci la paternità statistica non si registra quella artistica, il cinema, discutibile quanto si vuole ma perlomeno cinema, arriverà solo qualche anno dopo con Kinetta (2005), qui affoghiamo in un banale colliquativo che si prefigura già da una trama abusata: Konstadinos (si tratta di Lakis Lazopoulos, anche co-regista del film) perde un volo aereo e ritorna a casa dove becca la moglie a letto con Alekos, l’amico di sempre, da qua parte una floscia sarabanda di siparietti dove varie macchiette si prendono e si lasciano provocando al massimo poderosi sbadigli. Ma vabbè, uno pensa che pur trattandosi di un Lanthimos acerbo e alle prime armi almeno il metodo di trasmissione sarà più innovativo delle tematiche trattate, invece no, cioè, oddio, più che altro regna una fastidiosa confusione che si potrebbe definire frenesia di voler riprendere tutto e di accentuare una comicità sterile, talmente vacua da risultare urticante. Salvabili soltanto perché il resto affonda che è un dispiacere i flash con i due protagonisti bambini/adulti, flebili lampi nel buio più buio.

Il grottesco non funziona e a parte la bizzarria di alcuni personaggi (il [o la] detective; i tizi pelati in sciopero che ricompaiono nella storia) o talune scene in cui l’ambientazione ricorda vagamente una realtà pseudo-futuristica (il tipo nel taxi, il negozio di parrucchieri), nient’altro spicca perché non sussistono proprio le possibilità che ciò possa accadere, questo è davvero un film che non può essere apprezzato da nessuno, né dal cosiddetto cinefilo perché una roba del genere è letale Kryptonite per i suoi occhi, né la persona qualunque che ogni tanto guarda cosa c’è in tv alla sera perché lo standard qualitativo di O kalyteros mou filos è inferiore anche ai prodotti spudoratamente catodici. Non saprei che altro aggiungere poiché obbrobri così annientano la voglia di aprire un file Word e buttarci dentro le impressioni generatesi dalla visione. Tremendo, tremendo e tremendo, l’ordine perentorio è: dimenticare. Subito.

martedì 13 novembre 2018

Nine Seven Seven

È assodato che la fantascienza umanizzata di Tarkovskij ha lasciato segni nella cinematografia sovietica, tanto che, ancora oggi, dalla Russia e zone limitrofe ci giungono segnali di una vitalità filmica che guarda con occhi dolci a Solaris (1972) e ad altre opere equipollenti, da queste parti gli esempi in merito non mancano: 4 (2004), Target (2011), Vanishing Waves (2012), ma anche i film di Lopušanskij e, forse, pure l’ultimo di German, Hard to Be a God (2013), che qui non c’è, e che è un mostro colossale, il più grande film russo da non so quanti anni ad oggi. Pellicole divergenti quelle appena citate dove ci vuole non poca sfrontatezza nel raggrupparle in un unico insieme, parimenti è penso condivisibile segnalare un comune approccio alla materia fantascientifica che evade i canoni dell’etichetta e che esprime per mezzo di segnali stilistici e tematici un senso di appartenenza nei confronti dello Stato geograficamente più grande del pianeta. Tratteggiato in modo sommario e opinabile il contesto, dico che all’elenco si può aggiungere un’altra voce: 977 (2006), un debutto firmato da Nikolay Khomeriki (regista moscovita nato nel ’75 che vanta una presenza attoriale in Rita’s Last Fairy Tale, 2012) e presentato a Cannes ’06, che è un titolo non esattamente facile, (rumore dello schiocco tra il pollice ed il medio), istantaneo, il che, in sostanza, è pane per le nostre menti che perlomeno registrano una certezza, ovvero che Khomeriki nel girare un film contemporaneo omaggia una sci-fi vintage, superata, giurassica, non per niente l’azione si svolge in una struttura sanitaria dotata di macchinari ridicoli e antiquati.

In realtà la constatazione di un’atmosfera passata più che fornire sicurezze getta ancor più nell’interrogativo, in 977 le coordinate spazio-temporali sono molto instabili e nulla ci vieta di pensare che l’Istituto sia una specie di dimensione a parte, un luogo che non esiste e che quindi non ha tempo definito (alla fine un enigmatico Leos Carax che per tutta la proiezione appare e scompare dagli anfratti impolverati del palazzo si allontana portandosi via un grosso orologio). Lo stesso giovane dottore che inizialmente appare come una figura razionale, nel prosieguo della vicenda viene attratto dal vortice surreale che lo attornia, e nel dialogo con il capo che anticipa la conclusione si potrebbe squadernare una piccola grande verità, e cioè che 977 è uno di quei film-cervello che terremotano la visione, e pur non arrivando ad elevati picchi di magnitudo, alcuni dati comunque sia crollano (“Rita non è mai esistita”) e tutto fa sì che si rimescoli in un gorgo di supposizioni. Non è un’opera a cui bisogna chiedere una comprensione Nine Seven Seven, la ricerca di una decifrazione netta ne sminuirebbe le qualità che al contrario sono site proprio nel suo alone misterico e sfuggente, però possiamo apprezzare l’evidenza degli assunti argomentativi che spaziano in aree squisitamente umane (ecco!) quali sono i sentimenti, perché 977, camuffandosi dietro una maschera retro-science fiction, non fa che raccontarci dell’arcano che unisce le persone, di quel nesso invisibile sprigionato dal nostro muscolo cardiaco, e quindi sì, Khomeriki, in un qualche modo, finisce per parlarci d’amore.

domenica 7 ottobre 2018

El ser magnético

Deboluccio (ad essere generosi) cortometraggio argentino passato a Cannes e Toronto ’15 recante la firma del regista Mateo Bendesky (Buenos Aires, 1989) il quale per El ser magnético (2015) si avvale del formato narrativo per illustrarci una situazione davvero troppo semplice: due fratelli professano da tempo una pseudo-religione che li obbliga ad una vita rigida e appartata, ma uno di questi due fratelli, Aldo, si sta stufando di tirare a campare così.

Per rappresentare il desiderio di un cambio esistenziale Bendesky mette in sequenza rapidi episodi della routine che vede la coppia consanguinea protagonista, la prima impressione, ma anche la seconda e la terza, si può riassumere in un ragguardevole “niente di che”, l’impostazione estetica un po’ lanthimosiana in cui possiamo leggere agilmente un retrogusto amarognolo in stile Solondz non è di certo un esempio di freschezza, di contesti simili ne abbiamo già visionati a pacchi e non tanto nella specificità qui proposta quanto nell’esposizione generale. L’espediente che vorrebbe sparigliare le carte in tavola (le patatine) è una bazzecola da niente, e altro da aggiungere per migliorare un pelo il quadro complessivo proprio non mi sovviene.

venerdì 21 settembre 2018

Angst

Cinema che arriva: da lontano, molto, probabilmente dall’Angola, terra di conquista Portoghese dove Graça Castanheira nacque ma non visse, almeno non a lungo visto che già nel 1989 si laureava alla scuola di cinema di Lisbona dove tutt’ora dovrebbe svolgere attività di docenza. E quindi il vento del tempo, dello spazio, della cultura (la stella polare è Walden ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau) si incanalano dentro Angst (2010), un documentario che non sta fra i suoi ranghi, esce, si dà alla contemplazione per poi ritornare subitaneamente nell’illustrazione, oggetto strambo che la Castanheira poggia su una base certa, forse: la traccia ecoambientalista è un’eco che torna e ritorna a partire dall’indispensabilità per l’uomo moderno del petrolio, la materia prima che sostanzia pressoché ogni oggetto della quotidianità. Il pericolo di alcune proposte filmiche tendenti al green pride è quello di risultare oltranziste e soprattutto noiosamente didattiche, Angst elude suddette inclinazioni poiché elude continuamente la sua stessa natura, e nello sguardo ramingo, che viaggia attraverso il Portogallo, l’America e l’Italia, le lenti per analizzare le varie situazioni attingono da diverse discipline trovando una felice comparazione con il Progetto Seti, un luogo dove l’attività principale è definibile come “archeologia del futuro”, grondaia, al pari di Angst, che cerca di congiungere l’umano con una possibile alterità.

Perché c’è una ricerca antropologica qui dentro, probabilmente celata sotto un approccio ecologico, ma che col procedere del film emerge inevitabilmente. La regista pone l’uomo di fronte a quello sconfinato utero che è la natura: non è una gara, non è nemmeno un bignami sugli orrori che nei secoli abbiamo perpetrato, è al massimo un tentativo di restituire l’inestricabile complessità del Totale, e non c’è niente come il Cinema, nell’essenza dura e abbagliante del suono e dell’immagine, a poter almeno provare a tematizzare un argomento di così sconfinata grandezza, e la Castanheira, consapevole dell’alta impresa, non dimentica di porre comunque un eventuale Fine (tutta umana), la sua lapide è già pronta, i corpi mummificati nel convento dei Cappuccini di Palermo dormono beati mentre le sonde Voyager ad ogni secondo che passa si allontanano sempre di più dalla Terra, un giorno, quando non ci sarà più traccia dell’homo sapiens sul pianeta, quei due manufatti già ora esteticamente antiquati saranno l’ultima testimonianza di noi stessi dispersa nel buio intergalattico.

martedì 18 settembre 2018

Letters to Angel

Il soldato Jeremia, dato per morto in Afghanistan, ritorna in Estonia per cercare i suoi cari.

Le premesse potevano portarci in una zona differente rispetto a quelle in cui Sulev Keedus aveva bazzicato nei film precedenti, magari, non era così sbagliato pensare, il documentario puro Jonathan Austraaliast (2007) una volta assorbiti gli slanci onirici aveva poi modificato le traiettorie del pressoché sconosciuto autore estone, d’altronde il ventaglio di tematiche affrontate da Kirjad Inglile (2011) pareva sconfinare in modo deciso nella concretezza: Medio Oriente, Islam, terrorismo e via dicendo, però è bastato davvero poco per constatare che non vi è alcuna virata realistica, anzi, forse se ripensiamo sia a Georgica (1998) che a Somnambulance (2003), Letters to Angel appare ancora più proiettato in un’altra disorientante dimensione, ciò si deve, probabilmente, allo scollamento netto tra il materiale in esame ed il modo in cui viene trattato, è proprio una voragine che, con alterna soddisfazione, inghiotte chi guarda. Dubito che qualcuno lo farà mai, ma la sensazione è che il cinema di Keedus andrebbe analizzato per bene, i suoi film sono costituiti da un sistema narrativo non così comune che sembra sempre sul punto di sfilacciarsi, in Kirjad Inglile, ad esempio, irrompono sulla scena parecchi personaggi senza che vi siano connessioni chiare nell’ordito tramico, ecco l’assenza di collegamenti, di cause ed effetti, è un ostacolo che lo spettatore medio non riuscirà a superare, ci sta, non è da tutti avere la voglia di seguire uno smarrito ex militare convertitosi all’Islam circondato da persone sull’orlo e anche oltre della follia che coinvolgono lo stesso in circostanze quantomeno enigmatiche.

Però, insomma, è decisamente stimolante vedere robe che svicolano dalle rette vie e quindi, almeno per il sottoscritto, ben venga questa atmosfera di alterità che trasuda dal film e ben vengano le bizzarrie disseminate lungo la proiezione. Che poi Keedus sotto sotto fornisce anche una bussola per raggiungere il minimo sindacale della comprensione, ed il procedimento che lo permette è ben congegnato, infatti è durante le confessioni epistolari di Jeremia alla figlia perduta che viene messo un po’ di ordine ai fatti che accadono sullo schermo, è solo durante la lettura off delle lettere che comprendiamo alcuni snodi principali della vicenda (il perché l’uomo è diventato musulmano e perché è rimasto così tanto tempo in Afghanistan) anticipati nella diegesi da eventi che, appunto, acquistano valore una volta esplicitato il contenuto del diario (l’attacco terroristico di Safia visto in tv e la conferma nelle parole successive del protagonista). Il profilarsi di una storia dalle tinte sì drammatiche ma che sfumano in altri colori meno grevi, vede un uomo nella gemella ricerca di due figlie, una naturale e una adottata, che risultano irraggiungibili, sia in Europa che in Oriente, il che, e ora arriviamo nel punto cruciale, suggerisce di come in realtà sia possibile che le due bambine non siano mai esistite e che tutto sia successo nella mente di Jeremia, Keedus gioca tutte le carte dell’antiletteralità che ha a disposizione, non spiega, non risolve, non imbecca, la lettura è talmente spalancata che non si fa un azzardo a pensare di quanto la parte ambientata in Estonia sia una proiezione celebrale di Jeremia che non se ne è mai andato dall’Afghanistan (perché nel Paese baltico ci sono tutte quelle operazioni militari? Perché le persone nella terra natia sono schizzate e incontrollabili mentre negli stralci afghani non succede granché di anomalo?).

E comunque, a prescindere dagli arrovellamenti interpretativi, abbiamo la fortuna di confrontarci con un regista piacevolmente irrequieto, va bene la solennità del cinema sovietico che sta alla base, ma Keedus è uno con delle visioni forti, che sa comporre il quadro e giocare sia con le cromature che con gli spazi, il cinema che dipinge, non troppo dissimile da quello di Lech Majewski per ciò che ricordo, è un precipitato di surrealtà che vive nelle eccentriche apparizioni inscenate, tra l’estasi e l’allucinazione. Se Keedus riuscisse a trovare un compromesso maggiormente impattante tra sceneggiatura ed estro estetico sarebbe davvero un autore da seguire attentamente, resta valido, ad ogni modo, il consiglio di approfondirlo.

sabato 15 settembre 2018

The Itching

Essenzialmente The Itching (2016) si fonda su un piccolo paradosso: nell’illustrazione antropomorfa degli animali colui che in natura è universalmente riconosciuto come un predatore, il lupo, è invece qui una remissiva lupetta che tenta dei timidi approcci con i compagni faunistici i quali, a dispetto della loro concreta condizione di prede, i conigli, per Dianne Bellino sono dei festaioli che sniffano e ballano tra i boschi. L’innesco del corto si genera dunque dalla protagonista che cerca di instaurare un rapporto, anche frivolo come può essere un incontro all’interno di un party, con l’altro mammifero, dall’ipotizzabile blocco psicologico la regista, praticamente esordiente e aiutata per l’occasione dall’animatore Adam Davies, estrae il nucleo, visivo e concettuale, del proprio lavoro: una ferita, una piaga sulla coscia sinistra che prude e che non vuole saperne di rimarginarsi, dentro ci sono un po’ di cose riconducibili all’eventuale intimo personale del personaggio (l’arcobalenica gamma di colori che si intravede, cenerentolianamente i sogni sono desideri... colorati) e, soprattutto, all’inventiva della Bellino che riversa nel taglio un laghetto con tanto di pesci.

Tutto bene tutto bello? Non proprio. Evitando di fare le pulci ad un micro-oggetto del genere, il sentore globale è che The Itching abbia poca spinta e che, nel grande recinto della stop-motion dove razzolano triliardi di prodotti simili, scivoli nell’anonimato. La tecnica utilizzata denominata in inglese claymation (la medesima che fu di Pingu o del mitico Celebrity Deathmatch che allietava le seconde serate su MTV) non eccelle per particolari motivazioni, a fronte delle solite carinerie a cui il mondo dell’animazione contemporanea ci ha ampiamente abituato, mancano degli sprint estrosi capaci di farti dire: “wow”, inoltre ho ravvisato briciole di ruggine nei muti confronti tra i soggetti in scena, l’assenza della componente dialogica non è sopperita in toto dalle movenze dei pupazzetti. Inoltre avrei desiderato che il gesto “estremo” compiuto dalla sofferente lupacchiotta avesse un’origine, un filo conduttore con quanto si vede fino a quel momento, invece il raptus pare piuttosto improvvisato e messo lì giusto perché, in qualche modo, lo squarcio doveva ricomporsi. Se la Bellino fosse stata italiana (e visto il cognome potrebbe esserlo di origine) allora avrei potuto brillantemente (sono ironico) dire “ecco, era l’unico modo per accettarsi e farsi accettare”, ma dato che la ragazza vive e lavora a New York il gioco di parole non regge e lo stolto recensore che l’ha pensato leva subitaneamente le tende.

giovedì 13 settembre 2018

It Looks Pretty from a Distance

Non sottovaluterei troppo Z daleka widok jest piękny (2011) dei coniugi Wilhelm e Anna Sasnal perché è uno di quei film che una volta tornati alle nostre misere faccende quotidiane comincia a girare per conto suo negli intercapedini mentali, e lievita, e si alza e… senza esagerare eh: parliamo dell’opera di un pittore/artista polacco con una carriera di discreto successo (esposizioni un po’ in tutto il mondo) che almeno inizialmente sembra accusare non poco la ricerca di un cinema-verità dove la finzione è estrapolata dalla realtà, un tipico caso di storie che si raccontano da sole perché sembrano esistere lì da sempre e per sempre, accusa perché la sciatteria formale che ne consegue non risalta, parrebbe che la mancanza di una professionalità segni inevitabilmente la riuscita dell’opera. Proseguendo però l’impressione si rivela errata perché la veste estetica ha una coerenza che ben si avvicina al suo nucleo concettuale dove i due registi dimostrano in vari passaggi una dimestichezza col mezzo che è tutto fuorché sciatta, la coppia, sempre seguendo il mantra del reale, si affida a contemplazioni della natura graffiate da bozzetti umani che ricordano il Bartas di Seven Invisible Men (2005) e colpisce l’occhio con la sequenza virata in blu in cui viene distrutta la casa, oppure, in un dettaglio inessenziale, piazzano l’accento di una vecchia che urla dalla finestra mentre la camera retrocede lentamente fino a renderla un puntino, tale scena non ha alcuna economia nel film (anche se è inserita poco dopo la scomparsa del ragazzo…), però rimane e questa è la cosa che più conta.

Quanto appena detto, che al solito non rende mai giustizia all’originarietà del manufatto artistico, d’altronde chi scrive sul cinema ne è solo la sua misera appendice, un bargiglio pendulo, si incastra in un quadro bifronte che da una parte ha dei riferimenti orientanti e dall’altra non li ha, ergo: siamo in una campagna polacca, da qualche parte, e fa molto caldo, i Sasnal sanno appaiare la soffocante calura estiva con la cappa altrettanto priva di ossigeno che asfissia il villaggio, ci sono segnali trasmessi con dignità filmica che riguardano la monotonia della vita laggiù, la bassezza del lavoro (recuperare rottami: cadaveri arrugginiti), la linea piatta dei sentimenti (nel rapporto tra lui e lei è ravvisabile una certa freddezza), la possibilità di svanire nel nulla: è il momento chiave, non spiegato perché le motivazioni, intuibili, ipotizzabili e/o dolcemente incomprensibili, stingono al cospetto della reazione forse altrettanto misteriosa che scuote i paesani (e non va scordato l’allontanamento dell’anziana donna dall’abitazione, un fatto che la recensione di Slant Magazine [link] pone come chiave di lettura principale). Prescindendo dalle possibili interpretazioni, è maggiormente importante che si possano creare presupposti multipli per altrettante comprensioni, le quali fanno di It Looks Pretty from a Distance un oggetto con un potenziale nascosto niente affatto trascurabile, e ad esclusione della rivedibile sortita vendicativa dell’ex fidanzata, all’interno vi sono particelle di cinema onorabile. Adesso approfondire la conoscenza dei Sasnal diventa un dovere.

martedì 11 settembre 2018

Apaföld

Il padre ritorna a casa dopo una lunga detenzione, il figlio non lo accoglierà a braccia aperte.

Piccolo film, e su questo siamo d’accordo, limitato dalla sua stessa natura, credo idem, che è narrativa, e quindi l’ombra lunga della sceneggiatura risucchia ogni speranza creativa. Però. L’opera che rappresenta il debutto dell’ungherese Viktor Oszkar Nagy non è un lavoro insostenibile se per insostenibile intendiamo proprio quel cinema lì, quello ammaestrato per il pubblico sedato, perché Apaföld (2009) offre una messa in scena non troppo urticante, il regista mira ad un metodo più autoriale che commerciale e allora si tenta la carta della “contemplazione” (virgolette d’obbligo, un film contemplativo è ben altra cosa) piuttosto che il montaggio concitato, e anche i dialoghi, minimi e basici, non risultano poi così indispensabili per la comprensione. Nagy ricorre (o vorrebbe farlo) all’uso delle immagini ed alla corporalità/espressività dei suoi spesso silenti attori per esprimere ciò che gli sta a cuore. Ma anche ad essere di manica larga, Apaföld non ci risulta quell’esemplare di settima arte che vorrebbe essere, e il motivo limitante, summenzionato nella prima riga, è proprio dato dalla mera sequenzialità degli eventi che disegnano una storia troppo ordinaria, troppo inchiodata ad un terreno razionale.

Al centro vi è il difficile rapporto tra il figlio e il padre (si tratta di János Derzsi, uno degli epici interpreti di Tarr) dove il primo, per motivi intuibili (le solite colpe dei genitori che ricadono sull’innocente prole), mette in atto una guerra sotterranea che lo porterà a volere la stessa donna del papà, nonché zia poiché sorella della madre defunta. Lo scenario spurga fuori un dramma nerastro senza che Nagy riesca davvero a dare un tocco imbrunente, si galleggia: la tensione tra i due non arriverà mai alla spannung, e si affonda un poco: la svolta criminale del ragazzo non innalza la visione ma la livella adagiandosi su prospettive miopi, non sarà un ennesimo racconto di de-formazione a stamparsi nella memoria. Eh, manca del cinema vero qui, manca la capacità di saper toccare la sensibilità spettatoriale con l’estetica, e non quella ornamentale finalizzata ad abbellire, bensì l’estetica ammutolente che sostituisce le grammatiche conversative, la piattezza delle scritture, e che va giù profonda, dentro ai sensi, dentro di noi. L’averci appena appena provato da parte di Nagy non è sufficiente, ci sono le attenuanti dell’esordio, sì, anche se scorrendo il resto della filmografia da Apaföld in avanti non sembra proprio che il nome di questo regista valga la pena essere annotato sul nostro taccuino.

venerdì 7 settembre 2018

Fata Morgana

Marito e moglie cinesi si recano negli Stati Uniti a causa della prematura scomparsa della giovane figlia. C’è un funerale da organizzare e un dolore immane con cui imparare a convivere.

Fata Morgana (2016) è la tesi di Amelie Wen, giovane filmmaker proveniente da Pechino ma stabilitasi in terra americana per inseguire i propri sogni di celluloide, a chiusura del suo percorso formativo presso l’American Film Institute Conservatory di Los Angeles, quindi comprenderete subito che la taglia del corto sotto esame non può certo rientrare tra i pesi massimi, è semplicemente un lavoro onesto che non fa un passo che sia uno più lungo della gamba, nelle intenzioni della regista si legge in modo chiaro la voglia di imbastire un piccolo dramma che orbita intorno ad una stella fredda e oscura come un buco nero: la morte della propria figlia. Omettendo le ragioni del decesso (ed è già qualcosa) rimane lo struggimento genitoriale ampliato dallo spaesamento a stelle strisce: soli, in un luogo sconosciuto, bersagliati dai ricordi (la faccenda dell’anello sembra legata al passato), devastati dal lutto ed emotivamente lontani (ma con ricongiungimento conclusivo), in venti minuti scarsi il quadro che si profila è questo, Wen poteva fare di più? Nel senso, poteva spingere maggiormente il pedale della tragicità? Probabilmente sì anche se non sono troppo sicuro che il film ne avrebbe giovato, così impostato infatti mantiene un decoro che, pur non salvandolo da un istantaneo oblio, permette di arrivare in fondo senza aver provato particolari fastidi. Da capire il perché del titolo, che sia un riferimento al famoso effetto ottico che sedusse anche il buon vecchio Herzog (Fata Morgana, 1971)? Oppure si tratta di un’allusione al celebre personaggio delle saghe arturiane? Se qualcuno nella remota ipotesi intoppasse in Fata Morgana e avesse delle illuminanti congetture a tal proposito si faccia avanti, la porta è sempre aperta.

mercoledì 5 settembre 2018

La primavera

Deve sentirsi molto a suo agio nei territori rurali Christophe Farnarier (e come dargli torto?), perché quattro anni dopo El somni (2008), con una parentesi come direttore della fotografia – sua attività principale – per Familystrip (2009) e un’altra come co-regista in The First Rasta (2010), ritorna a girare un documentario in zone non lontane da dove pascolavano i greggi del signor Pipa, siamo infatti nuovamente vicini al confine francese, nella Catalogna interna, più precisamente la Sierra Cavallera, una zona montuosa dove si arriva anche a toccare gli oltre duemila metri di altitudine. Lo scenario de La primavera (2012) è perciò facilmente accostabile al lavoro precedente dell’autore marsigliese, non solo, diciamo che anche a questo giro c’è una forte concentrazione filmica su una precisa figura del suddetto scenario, se prima era un vecchio pastore adesso è una donna, Carme, che attraverso l’occhio di Farnarier incarna un po’ tutte le mujeres del mondo agreste, una santa terrena splittata in una moltitudine di ruoli (da mamma a contadina, da allevatrice a cameriera), una stacanovista che non cede mai e che mai si siede se non per consumare il pasto con i familiari. La primavera è Carme, poiché, in uno slancio poetico, essa è la primavera tout court, d’altronde, con le sue sbocciature e fioriture, non esiste stagione più muliebre.

Di tale ritratto Farnarier fornisce piccoli tasselli che vanno a formare quell’inconcepibile mosaico che è la vita stessa, con silenzio e misura la mdp si appoggia invisibile nei luoghi dove la summenzionata vita annota il proprio scorrere, e allora, come il titolo fa già intuire, sarà l’infinita ciclicità del tempo a dettare l’andatura, e il vivere agricolo non può che seguire i propri rituali ancestrali, sicché dalla semina arriverà il raccolto e dal maiale carni e salsicce, col primo caldo, poi, ci sarà bisogno della tosatura, e avanti così (così: una gallina sgozzata, non sappiamo per cosa, sarà soltanto un punto dell’infinito cerchio), fino al ritorno di un altro inverno. Incastonata in un giro sempiterno, Carme è, per merito dello sguardo di Farnarier, un piccolo essere umano condannato alla ripetizione (ma noi animali metropolitani siamo tanto più liberi?) con però una tenacia e una forza che la rendono un soggetto ideale per un progetto del genere, e quando la vediamo alla festa di paese ridere al concerto dell’anziano con l’organetto, siamo quasi contenti per lei e per il momento di svago che è riuscita a ritagliarsi.

La primavera, ma credo che lo abbiate capito, non fa rivoluzioni, quello che mostra il cinema lo ha già largamente mostrato in passato, tanto che altri registi (vedi Michelangelo Frammartino) ci hanno costruito sopra un’intera carriera, oppure, giusto per rimanere in Spagna, un titolo equiparabile e probabilmente anche superiore è The Sky Turns (2004), ad ogni modo, a differenza di quella settima arte improntata al guadagno i cui esemplari sono tutte esili copie le une delle altre, delle proposte che viaggiano in senso contrario vanno sempre omaggiate con la visione, anche se non arricchiranno troppo il vostro bagaglio cinematografico.

venerdì 31 agosto 2018

Rome désolée

Nonostante lo preceda di diciassette anni, Rome désolée (1995) si associa a Jaurès (2012) per via di una struttura che Vincent Dieutre pareva avere già ben chiara all’epoca (è il suo debutto): affrontare la realtà esteriore per mezzo di un alfabeto immancabilmente personale, nel senso: io parlo di me, eppure parlo anche di ciò che mi sta intorno, nello specifico una Roma che è crocevia di vite (e di morti) rimembrata dalle parole del regista che valgono le immagini in video, fino a superarle. È un’alchimia specifica di chi utilizza metodi di trasmissione come quelli di Dieutre a farci innamorare ancora una volta del cinema e della sua diversificata accessibilità, nelle memorie del regista, legatissimo all’Italia in quanto per lui terra di profonda ispirazione, si delinea la forza, tutta della settima arte, che accresce il vento di una nostalgia singolare e al contempo plurale, è la veduta di un’epoca dissoluta (plausibilmente gli anni ’80) impastata nell’eroina e nei rapporti sessuali scoperti, sebbene, per paradosso, non si veda niente, solo riprese urbane della Capitale, lacerti anonimi, dettagli inessenziali, eppure, sempre per paradosso, si vede molto perché si superano i fotogrammi, si va al di là della superficie estetica per entrare in contatto diretto con un flusso di ricordi che avvolge a dispetto della nostra completa estraneità. Ecco la forza sopraccitata, il potere di una proiezione che, come dice il lemma in sé, getta qualcosa, emana, irradia.

Autofiction sì, autofiction no Rome désolée è uno spazio di riflessione sulla disputa tra reale e finzione, niente di rivoluzionante ma le modalità con cui Dieutre conduce il discorso meritano attenzione perché meno esplicite e meno immediate di altri studi equipollenti. Il punto è che la componente “vera” dell’opera, o almeno quella che lo sarebbe sulla carta, è potenzialmente “finta”, ovvio che non ci è dato sapere se i racconti della voce narrante, gli episodi e i vari amici citati siano effettivamente dati concreti oppure no, ma anche il solo fatto di poterne dubitare li tinge di un colore divergente dalla realtà, parimenti tutto l’apparato visivo costituito da riprese sul campo è alterato da infiltrazioni televisive, si tratta di rapidi e sfarfallanti ingressi senza audio (la voce di Dieutre copre ogni cosa creando così un effetto destabilizzante) che attestano una strana dimensione, italica oltre che sottilmente fittizia. Il risultato, condensato in un’ora, potrebbe avere le carte in regola per proseguire all’infinito, grandezza a cui Rome désolée tende senza nemmeno saperlo, ma lo sappiamo noi, lo percepiamo, anche solo dall’ultima cartolina sullo schermo dove un mendicante culla colui che ci si immagina essere il figlio. Souvenirs personali dislocanti, la frontalità di una miseria romana, umana, universale.

mercoledì 29 agosto 2018

Däwit

In fondo Däwit (2015) fa ciò che un cortometraggio animato dovrebbe sempre fare: mettere al servizio di una storia, anche basica o perfino ingenua, l’estro creativo di chi l’ha pensata, solo così può accadere che lo spettatore non si curi affatto degli inceppamenti tramici per lasciarsi trascinare da quel famoso senso di meraviglia che fluisce nell’animazione, ed il tedesco David Jansen, aiutato dalla moglie Sophie Biesenbach, sembra assolutamente conscio di tale concezione artistica, la sua proposta, ispirata graficamente ad un libro di Frans Masereel (mai sentito nominare ma ad una superficiale occhiata non mi dispiace affatto!), si forgia in un certosino processo inventivo che lo ha visto per quasi un anno disegnare circa undicimila immagini utilizzando la tecnica xilografica, ossia l’incisione del legno, ma adattata all’odierno digitale con una specie di tavolozza computerizzata chiamata Cintiq. La resa generale è un mix di sbordature, di nervosi ghirigori che modellano di volta in volta paesaggi, figure e oggetti, anni fa avevamo visto qualcosa di assimilabile con When the Day Breaks (1999) ma Däwit, che non ha colori (e visto ciò che racconta non potrebbe averne), è un oggetto più “sporco”, il che non è da intendere negativamente, l’ombrosità trasmessa non lascia significativi spiragli di luce.

Fondamentalmente il racconto si risolve con una mitigazione dei toni scuri, insperatamente il perdono si rivela il precipitato concettuale voluto da Jansen, nulla che smuoverà la coscienza altrui sebbene sia doveroso riconoscere che la scelta di infilare il padre (di cui abbiamo visto il brutto comportamento) in una bottiglia come se fosse il modellino di un galeone o come se, più coerentemente, fosse prigioniero della sua dannazione, è una cosa bella che resta, al pari di almeno altre due subito citabili: il “sipario” che si chiude sul volto del neonato in balia delle onde diventa la palpebra della madre implorante un qualche dio affinché il figlio venga tratto in salvo (cosa che in effetti accade), ed il trip chimico con il dottore torero che apre una faglia freudiana nella memoria: il padre azzanna il cordone ombelicale, è lui che li ha divisi. La nuda descrizione, in casi del genere, è il riflesso di un’ammirazione tale da surclassare le possibili carenze degli ingredienti extra-estetici.

domenica 26 agosto 2018

In April the Following Year, There Was a Fire

Si autodenuncia fin da subito Sin maysar fon tok ma proi proi (2012), piccolo film thailandese presentato in quello che forse è il miglior Festival europeo (Rotterdam), suggerendoci indirettamente la sua natura, indie, low-budget, “come in quel film di Boonmee?”, sì come Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010). No, non come lui, inevitabilmente, ma per Wichanon Somunjarn il connazionale Weerasethakul sembra essere un modello da cui trarre ispirazione, e, attenzione, non a cui aspirare perché comunque l’opera sotto esame pur avendo tratti riconducibili al cinema del più famoso regista thai vivente (la struttura: duplice; i temi: evocazioni tra passato e presente), ha una propria linea filmica che cova al di sotto di una stasi diffusa una certa quantità di materiale parecchio interessante. Seguendo la regressione geografica e intima del protagonista che si sposta da Bangkok al paesino natale, il film diventa un varco dove flussi mnemonici entrano ed escono dalla diegesi, non vi sono però toni alti né sottolineature folkloristiche (a parte un segmento indipendente che racconta una fiaba locale con mdp puntata sul volto di un villico che pagaia sul fiume), lo scorrere delle cose assume connotati naturali, “veri”, merito soprattutto di Somunjarn che propone un cinema del reale netto e sincero: vita contadina, riprese paesaggistiche, la manutenzione di un cavallo, la festa di un matrimonio. Non c’è finzione dentro In April the Following Year, There Was a Fire.

E invece c’è, eccome se c’è. Somunjarn ad un certo punto alza la traiettoria del suo lavoro, lo carica di altri sensi e al contempo ci gabba, coglie impreparato lo spettatore convinto fino a quel momento di assistere al massimo ad un gradevole esemplare para-etnografico. Non è un movimento seminale che passerà alla storia, d’altronde la scelta di un “film-nel-film” non può più essere un’idea illuminante, ma per i tempi e i modi con cui viene effettuata tale proposta in In April, discreti e poco enfatici, inaspettati ed empatici (la foto d’archivio della mamma col bimbo sulle ginocchia: la forza estetica del cinema si può esplicitare anche con un’ingiallita istantanea, che lo sappiano i tronfi registi maestri di tecnica), l’accettazione si fa immediata anche perché, nel frattanto, Somunjarn svela definitivamente il cuore del film che è fatto di biografia personale e profondità, sicché l’equilibrio che viene a crearsi tra la storia di sé e una storia altra, che è sia una storia recitata (i segmenti con la ragazza sono intelligentemente corrosi da frasi fatte prese da una soap-opera) che una storia agli antipodi, avvalora di non poco la visione complessiva. Quindi ricapitolando: il regista ci mette dentro molto della sua vita, e dunque grazie per la sincerità, parallelamente compie uno studio di ricerca sui confini della rappresentazione che non disdegnerei, e come ciliegina inserisce questioni evidentemente attuali per la Thailandia d’oggi (la disoccupazione e i dissesti politici interni), insomma, siamo sicuri che Sin maysar fon tok ma proi proi sia così piccolo?

giovedì 23 agosto 2018

Fuck for Forest

È immaginabile che il regista polacco Michał Marczak si sia interessato al progetto Fuck for Forest spinto da una curiosità che era e sarà la stessa di una qualunque altra persona che ha sentito o sentirà parlare di questa “particolare” associazione, con la differenza che Marczak campa facendo cinema e di sicuro, qui, l’avvertibile potenziale filmico deve averlo fatto spostare fino a Berlino, centro nevralgico di FFF. Che cosa sia e che cosa faccia tale organizzazione è riassumibile in una dicitura che all’incirca le rende giustizia: si tratta di un gruppo di porno-ambientalisti che professano, praticano e mettono in Rete una sessualità libera con lo scopo di racimolare denaro da reimpiegare in campagne à la Greenpeace con tanto di fundraising sempre attivo sul loro sito (link). L’idea di Tommy e Leona, i due storici fondatori, è paradossale ma comunque funzionante poiché come Fuck for Forest (2012) ci mostra la comune tardo-hippie riesce davvero a tirare su dei buoni gruzzoletti, e prima di qualunque valutazione emerge un forte carattere distintivo dell’attuale società iperconnessa: le persone che infatti hanno comprato il materiale messo a disposizione sul portale di FFF non hanno sicuramente a cuore le sorti del pianeta, l’epoca di Internet che ha ricalibrato il concetto di voyeurismo fa sì che gli esseri umani non paghino nemmeno più per fare sesso, ma paghino per vedere qualcun altro che lo fa, ne consegue così che nell’ottica di FFF l’onanismo, seppur indirettamente, potrebbe salvare un pezzettino di mondo, ecco allora che con una proposta del genere, provocatoria finanche divertente, il collettivo di alternativi ne esce fuori meglio di quanto a prima vista possa sembrare.

Per quanto concerne l’effettività del film in oggetto, Marczak divide l’opera in due tronconi dove nel primo assistiamo ad una presentazione dei vari componenti unita ai tentativi di raggranellare soldi in giro per Berlino, mentre nel secondo, con la traversata atlantica verso l’Amazzonia, si concretizza, anche se non pienamente, il loro afflato utopistico. Registriamo la mera cronaca degli eventi che il regista ci offre senza particolari accorgimenti, molta camera in spalla e camminare, interessanti, comunque, alcune riprese notturne (sia in Europa che in Sud America) capaci di dare un tocco lisergico al tutto. Senza picchi indimenticabili Fuck for Forest trova nel proprio finale il suo migliore momento perché i colorati punkabbestia devono fronteggiare un pericolo ben più incombente della deforestazione: il disincanto provocato dalla realtà, a tu per tu con gli abitanti del posto i sogni, e quindi ciò in cui credono, si frantumano. È un incontro/scontro che fa piacere vedere all’interno del documentario poiché dona un minimo di spessore in più: gli ideali stingono e gli illusi vengono sconfitti sul campo [1] (durante la riunione compare un venditore intento a piazzare, ironia della sorte, quelli che mi sono sembrati dei decespugliatori o qualcosa di simile [2], inutile dire che gli astanti, anche per motivi linguistici, prestano maggiore attenzione al mercante che a Tom), ma onore al loro essere così bislacchi e “diversi”, eroi del niente, paladini sballati di cause giuste.
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[1] Non in toto, FFF è ad oggi ancora vivo e vegeto e a quanto dice la relativa pagina di Wikipedia (link) l’accordo di aiuto con gli indigeni è poi andato in porto.

[2] No. Non sono per niente sicuro di cosa sia quell’oggetto, il mio spagnolo scolastico non arriva fin lì. Comunque è un oggetto moderno, innaturale, che stona con i propositi del meeting.

mercoledì 8 agosto 2018

Historia del Mal

Sì, esattamente come accadrà in futuro per l’ottimo El Movimiento (2015), anche Historia del Mal (2011), nella sua contenuta dimensione, è una contaminazione di registri, un piccolo collage di approcci alla settima arte. Il substrato su cui Benjamín Naishtat si poggia è storico: nel 1879 il generale Julio Argentino Roca conquista i territori centro meridionali dell’Argentina (fino a quel momento in mano ai nativi locali) lasciandosi dietro una scia di sangue e sopraffazione. Il corto parte da una serie di filmati d’archivio simili a dagherrotipi in movimento che riprendono alcuni soldati nel bel mezzo del deserto, c’è però qualcosa di strano: dopo neanche quattro minuti si stacca su un’odierna strada asfaltata percorsa da moto e automobili, altro strappo ed il film muta in una sorta di casting a persone che dovrebbero presumibilmente vestire i panni dei combattenti al fianco del generale Roca in un’opera di finzione. L’impatto dei soggetti che dialogano con Naishtat dietro la mdp ed uno green screen (montato alla buona...) sullo sfondo ricordano le procedure di quel The King’s Body (2012) firmato da João Pedro Rodrigues, infatti anche Historia del Mal pur basandosi su un fatto storico sguscia nel presente e nel personale, ma non troppo a dire il vero: la “questione Roca” rimane il principale topic argomentativo.

Poi, guardando meglio i volti degli intervistati, inizia ad insinuarsi il dubbio che le immagini di repertorio non siano altro che una ricostruzione compiuta da Naishtat perché, a meno di sviste o clamorose somiglianze, sembrerebbe proprio che i protagonisti degli antichi video siano gli stessi di quelli più recenti, ed anche se in apertura si sottolinea che la restaurazione dei filmati è stata effettuata con il patrocinio di un ente argentino, il dubbio, che espande la cifra del film stesso, rimane. Dove invece le certezze paiono più salde è sul senso globale del corto, un senso che prende gli avvenimenti accaduti sul finire dell’800 in quanto particolare che riflette qualcosa di universale, di continuo e persistente, se lo si nota la m di “Mal” è maiuscola ad evidenziarne una propensione trasversale e atemporale (cosa che accadrà in modo simile anche in History of Fear, 2014), non a caso si cita un luttuoso evento contemporaneo riguardante il possibile omicidio di un bambino da parte della polizia, un’altra macchia, un altro vuoto che dilaga, perché come dice il proprietario dell’azienda metallurgica “è sempre la stessa storia, in Europa, in Asia o altrove, c’è un vincitore ed un vinto, ed il vincitore è colui che detta le regole.”

venerdì 3 agosto 2018

I Used to Be Darker

Putty Hill (2010), con il suo metodo incursivo lontano dalle solite schematizzazioni narrative mi aveva illuso che Matthew Porterfield potesse essere un regista in grado di proporre un cinema diverso, I Used to Be Darker (2013) ha subito cancellato questa speranza. Il film in questione è definibile come un medio prodotto indie imbastito su un racconto assolutamente lineare e privo di guizzi tecnico-tematici, lo spunto di partenza per Porterfield è quello di una giovane ragazza nordirlandese, Taryn, che un bel giorno piomba nella casa degli zii a Baltimora, da qui si mette in scena una piccola vicenda routinaria dove i problemi famigliari assurgono a punto nodale. Il regista pone la nuova arrivata, già in rotta con i propri genitori e con un pesante segreto nella pancia, all’interno di un nucleo consanguineo in via di disgregazione, i genitori della cugina, due cantanti sia nella finzione che nella realtà (sono Kim Taylor e Ned Oldham fratello di Will Oldham visto tempo addietro in Old Joy [2006] di Kelly Reichardt), si stanno separando e la loro figlia non sembra vivere bene la cosa. Taryn, come il più classico degli elementi esterni, incuneandosi in una santabarbara lì lì per esplodere mette ancora più in discussione gli equilibri della famiglia.

Capite? I Used to Be Darker non è altro che sceneggiatura e recitazione, non vi è spazio per lo spettatore che è costretto a starsene buonino nella sua posizione, d’altronde se nel paragrafo soprastante ho banalmente riportato la trama dell’opera senza alcun tentativo di interpretazione il motivo non è tanto da ricercare in un improvviso attacco di pigrizia o in un repentino spegnimento celebrale quanto nel fatto che la trama è il film in sé, da leggere, al di là di quello che viene esposto su pellicola, non vi è altro. Nulla si sottrae alla visione di Porterfield in un luogo virtuale come oif, se ne riconosce la professionalità e il tono “minore” che lo caratterizza e che già lo ha portato per ben tre volte di fila a calpestare il tappeto della Berlinale, però tale tono, almeno quello di I Used to Be Darker, non lo distingue minimamente da tutta la pletora di titoli che annualmente fioriscono al Sundance o in festival affini. Apprezzabili, sì… anche se, non so voi, ma io cercando sempre di puntare alle stelle perché dovrei fermarmi alla troposfera?
Nel cast anche una comparsata di Adèle Exarchopoulos.

mercoledì 1 agosto 2018

Somnambulance

Di Georgica (1998) c’è molto perché se guardiamo la parte estetica e anche quella narrativa i punti in comune con Somnambuul (2003) sono parecchi, di nuovo abbiamo sulla scena due figure conv/divergenti che vivono in una zona ageografica, quasi isolati dal resto di un’umanità che entra ed esce dalle loro vite, o forse dalle loro menti, e nuovamente le due persone sono una anziana ed una più giovane a segnare la duplicità di un percorso esistenziale pieno di passi indietro, stasi e salti in avanti; dal punto di vista formale Sulev Keedus dipinge su pellicola un quadro che non può non flirtare col cinema russo e che si esalta nei campi totali con la mdp spesso adagiata al suolo in modo da poter cogliere meglio la maestosità del paesaggio. Ad essere precisi qui la componente surreale che fioriva nel film precedente è più limitata poiché il tasso di “stranezza” è maggiormente indirizzato verso l’area sceneggiaturiale, Somnambuul infatti si divide tra il nitore di un’immagine che ha impatti potenti (ancora una barchetta solitaria sull’infinità dell’acqua) ed il grondare di parole pronunciate dall’instabile figlia, se ci pensiamo un attimo questo connubio è oltremodo particolare perché in un’opera contemplativa non è usuale trovare una massa dialogica del genere e parimenti in un titolo dove il tasso di finzione è elevatissimo (la recitazione della ragazza è enfatizzata al massimo) è raro che si aprano finestre visive dai tempi dilatati e rarefatti.

Se sopravviverete ad un testacoda così, vi toccherà anche ragionare su che cosa abbiate visto. Credo che pretendere la totale comprensione del film sia troppo, pur mettendoci tutta la buona volontà Keedus ci circuisce con la sua nebbia obnubilante e allora non si può che raccogliere le briciole di una storia che annovera squilibri e fantasmi, misteri e sofferenze, tutti elementi incanalati nella nevrotica Eetla (l’attrice si chiama Katariina Unt e reciterà in futuro per il connazionale Õunpuu), una donna che, come le ricorda il padre, non scorge più il sogno dalla realtà, e noi nemmeno: le due dimensioni sono indistinguibili e ciò aumenta il tasso di difficoltà fruitiva, ma ovviamente meglio trovarci in ambasce che con il bavaglino pronti per l’omogeneizzato. Un ruolo importante lo ha sicuramente una figura che mai compare nella diegesi, quello della madre assente è un perno su cui Eetla ruota incapace di afferrare alcunché, la cifra ectoplasmica della genitrice fa sì che la figlia in un atto di continua evocazione ne assuma le sembianze (d’altronde, se non ho frainteso, perde la verginità con un ex amante della mamma) senza riuscire ad andare fino in fondo, non per niente la pellicola inizia con la giovane che avuta l’opportunità di scappare dall’Estonia decide di non partire per la Svezia, a differenza della madre che li aveva abbandonati tempo prima.

Un’altra questione altrettanto centrale sebbene non venga posta in primo piano è quella della guerra. Lo scenario così lontano e sospeso come quello di un faro fa dimenticare il motivo portante dell’opera (ricordato nei titoli di coda) che è il risultato dell’atmosfera bellica nel Paese e che, giusto per ripetere, ha nella testa della povera Eetla un riverbero di terrore. Il conflitto non si vede mai, però se ne avverte l’alito (la vacca sulle ginocchia è un simbolo di sottomissione) e il rumore (le mitragliate degli aerei), si paventa l’eventualità di uno stupro che poi si realizza: la guerra è un soldato scemotto che non parla. Pure per le conclusioni è opportuno rifarsi alla similitudine con Georgica, giunti alla fine di Somnambuul la completa soddisfazione brancola ancora nella caligine dello spaesamento, abbiamo visto, ed è fondamentale, cosa, come, chi, perché, quando, dove, ecc., sono quesiti che si affastellano, il che non è affatto un aspetto negativo.

lunedì 30 luglio 2018

Phantasiesätze

Ho visto Phantasiesätze (2017) una volta, poi un’altra, dopodiché, come di consueto, mi sono messo a cercare qualche informazione nel Web, su IMDb una sinossi (a quanto si legge firmata proprio da Dane Komljen in persona, link) racconta di un’epidemia e di città trasformate da essa, altrove si citano Walter Benjamin e Černobyl, in una pagina di MUBI (altro link) è di nuovo lo stesso Komljen ad introdurre la sua opera riferendosi ad un gioco di parole chiamato, appunto, “Fantasy Sentences”, infine ho riaperto il file video e ho skippato in avanti per poi tornare indietro, più volte, in un rimpallo illogico, cieco, assetato. Anche così, nell’apparente incomprensibilità, si consuma una visione piena, per niente frontale, ma vibrante, oltre il visibile. Non c’è di che stupirsi, Komljen aveva già dimostrato di possedere una valida idea di cinema con All the Cities of the North (2016) ed il corto successivo, che a tratti pare esserne una ramificazione, prosegue nella medesima scia fatta di un metodo documentaristico aperto a suggestioni che, letteralmente, lo rivoltano, qui ad esempio si affaccia l’impressione che l’evento principe, il centro oscuro di tutto, non venga mostrato, tra il passato ed il futuro sussiste uno scarto dato dalle immagini, prima c’è l’uomo, dopo non c’è più. L’omissione è un fantasma che brancola tra le fronde degli alberi, una nuova forma assunta dalle memorie perdute.

Strutturalmente Phantasiesätze ha una configurazione che vuole suggerirci qualcosa: da una voce archeospaziale che descrive la mutazione di un uomo in una bestia si genera un flusso di filmati casalinghi che inizialmente non ha alcun audio, l’inserimento di una pista sonora avviene quando ci si sposta nel territorio boschivo dedito a spensierati picnic e bagni nel lago, l’estromissione dell’essere umano aumenta i decibel: si alza il vento, comincia a piovere, il film si adombra e senza che il sottoscritto riesca a spiegarne il motivo una minaccia monta lentamente, verso gli otto minuti scorgiamo il primo edificio abbandonato, a otto e cinquantadue lo strappo totale: dalla bassa qualità all’alta definizione del digitale, un gatto si lava le orecchie (è lo stesso che abbiamo visto prima?... cos’è prima?) e la sottile angoscia prende piede per mezzo di un accompagnamento musicale che va in crescendo, una potentissima distorsione elettrica intensifica lo spaesamento visivo: davvero, ancora una volta, grazie a dio: cosa e/o chi stiamo guardando? Fino all’approdo nel quadro nero, meta di una possibile transizione dall’essenza (la felicità, i figli, i padri, le madri) all’assenza (forse, lo scheletro di un grosso telo da proiezione ormai ridotto in brandelli). Dane Komljen è tassativamente da seguire.

venerdì 27 luglio 2018

Fuocoammare

[…] serve a ricollocare la ricerca di Sacro Gra e Tir nell’ambito di un cinema che dovrebbe essere medio, ed è scambiato per avanguardia.

(Giulio Sangiorgio, link non più visibile a causa della ristrutturazione del sito Spietati.it)

Condivido appieno la frase sopraccitata, in un mondo giusto il cinema di Gianfranco Rosi dovrebbe essere la normalità, d’altronde al regista nato in Eritrea la tecnica e i finanziamenti giusti non mancano mai per cui i suoi lavori sono sempre prodotti costituiti da un elevato tasso di professionalità, ma si sa, questo mondo di normale ha ben poco e allora succede che gli ultimi due film di Rosi, una coppia che sintetizzo così: mediocre, si siano aggiudicati altrettanti prestigiosi riconoscimenti festivalieri. Se Sacro GRA (2013) era parso al sottoscritto un titolo enormemente derivativo, vuotino e plastificato, con Fuocoammare (2016) il discorso sale un po’ di livello e devo ammettere che almeno il documentario in sé è stato capace di sfiorarmi a livello intellettivo. Ma era inevitabile, nel senso, qui parliamo di un’opera che anche senza volerlo si imbeve di politica, e dato che la politica è una cosa che dovrebbe riguardarci tutti, di fronte ai cadaveri dei migranti stipati come bestie nelle stive delle barche c’è di cui pensare. Anche se: si viene toccati né più né meno che dalla visione di un reportage televisivo, anzi è probabile che un ipotetico reportage sia capace di cogliere in modo ancora più diretto la realtà per sbattercela sotto al naso. Un nodo dell’affaire Rosi sta proprio nella percezione che si ha dei film che finora ha girato, è un cinema strano il suo e a onor del vero non sono ancora riuscito a comprenderlo, perché se è condivisibile considerare Rosi un regista del reale, al contempo si sono visti studi sulla materia molto ma molto più convincenti e con effetti sullo spettatore inevitabilmente più rimarchevoli.

Se ci si domanda come mai accada ciò, o, nel caso specifico, come mai in Fuocoammare non si esplicita quella forza investente che gli piacerebbe avere, è plausibile trovare una risposta in un altro film, forse il migliore di Rosi, chiamato El Sicario, Room 164 (2010), dove la presa sulla realtà non poteva avere filtri, divagazioni di sorta o para-narrazioni, e pur non mostrando nulla, soltanto le parole di un uomo incappucciato, il grado di suggestione erogato era davvero forte. Realismo sì dunque, ma prima con Sacro GRA e poi con l’immediato successore (e in particolare con quest’ultimo), il tentativo di fornire delle possibili strade-racconto all’interno del contenitore documentaristico non paga granché; nel film trionfatore a Berlino ’16 la scelta di contrapporre il piccolo Samuele al tema principale degli immigrati si macchia di alcuni parallelismi su cui serbo più di un dubbio, concettualmente potrebbero anche essere fecondizzanti, nella pratica si esplicitano in continue contrazioni, forzature che stridono con il ricercato impianto realistico. Se si prende in esame il bimbo ci sono parecchie corrispondenze con la relativa controparte clandestina (lapalissiana la scena del dottore e dell’ansia che lo affligge [1]), non si sa se tutte così spontanee (nella ripresa notturna con l’uccellino si propende per il no), e non si sa se tutte costruttive, quello che si sa è che in tali condizioni Fuocoammare risulta un film assemblato in un modo che la verità invece di apparire per come è si infiacchisce all’ombra di discutibili tentativi registici, e se si ripensa a Below Sea Level (2008), un lavoro che condivide con questo la lenta incursione di Rosi nel territorio, in ambo i casi si parla di mesi e mesi di permanenza e tessitura di rapporti umani, si può annotare un’evidente differenza di resa complessiva, forse un tono “minore” è quello che riesce ad essere più convincente delle traiettorie che sfiorano l’arido autorialismo.
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[1] Capita che alcuni mesi dopo incappo in Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) (2011) di Sylvain George dove è presente una scena ambulatoriale pressoché identica a quella di Fuocoammare ma con una differenza fondamentale: non è un bambino italiano a farsi visitare dal dottore bensì un ragazzo clandestino. Ecco come un diverso approccio inficia il risultato, se Rosi sovraccarica la realtà con la metafora ben poco celata del bimbo come punto di convergenza di tutto il dolore circostante, George opta per una posizione più “vera”: racconta una storia che, semplicemente, si racconta da sola.

mercoledì 25 luglio 2018

La vida sublime

Avevamo lasciato Víctor Vázquez impegnato nei suoi strani allenamenti da torero ne El brau blau (2008) e lo ritroviamo adesso ne La vida sublime (2010), diverso ma chiaramente identico a ciò che era nel film precedente, ed una tale sovrimpressione ruolistica non può che creare un ponte tra le due opere di Daniel V. Villamediana. Si procede all’insegna della continuità dunque, sebbene sia comunque consigliabile andarci cauti: la pellicola del 2010 segna un tracciato divergente nei confronti di quella del 2008, Villamediana abbandona l’astrazione e l’indeterminatezza, sia geografiche (perché prima eravamo in un luogo indefinito vicino a Barcellona, ora le location sono al contrario un dato essenziale per la storia) che razionali (‘sta volta l’agire del protagonista è di più agile lettura), preferendo imbastire una ricerca famigliare che, come nella migliore tradizione, è una ricerca di se stessi. Attenzione che lo “stile” è sempre altro e il regista nativo di Valladolid si impegna parecchio a fornire un tocco autoriale alla sua creatura, “autoriale” vuol dire tutto e niente, concordo, si sappia solo che la linea di demarcazione tra la virtuosità e l’insolenza artistica è un filo sospeso sui cui Villamediana passeggia non privo di alcune difficoltà. Comunque sia tutta la parte iniziale ambientata prima nel nord della Spagna e poi a Siviglia ha dei risvolti interessanti perché rimanendo sempre in bilico tra realtà e finzione si riesce ad estrapolare delle componenti narrative anche senza una messa in scena capillare. Nel dialogo si forgia una storia, così come le informazioni necessarie (ma anche superflue: il monologo sull’anarchia) che sgorgano dalle opinioni degli interlocutori o dai ricordi dell’anziana nonna.

Vi sono perciò svariate fonti a cui abbeverarsi per tentare un’ipotetica quadratura del cerchio, forse, a prescindere da qualunque sforzo interpretativo, per comprendere appieno La vida sublime bisognerebbe conoscere la Spagna in modo più approfondito perché il film si poggia su un ventaglio di tradizioni del Paese. Così Villamediana si trasforma in un Cicerone che tramite l’errabondare del ragazzo e il suo rapportarsi con gli altri illustra idee e opinioni che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la cultura e la società spagnola. Allora, se c’è una prima porzione ci sarà anche la sua prosecuzione che come accadeva nelle produzioni di altri esimi professionisti come Miguel Gomes e Weerasethakul (Blissfully Yours [2002] ha un punto in comune con La vida sublime, a voi il piacere della scoperta) si attua per mezzo di un cinema che nel primo tempo ha una faccia mentre nel secondo un’altra. Oddio, qua non siamo affatto al cospetto di un taglio così netto perché il blocco di Cadice segue una pista similare a quanto c’è stato prima, è però più marcato un allontanamento dalla logicità che ci fa riavvicinare bruscamente a El brau blau: quasi dieci minuti di ripresa frontale con Víctor che si ingozza di sardine, sempre Víctor che fa a pugni con l’aria sugli scogli o che canta con un gallo sottobraccio, e a parte lo scambio di battute con l’ex torero, la piega che il film prende nel finale si fa ancora più surreale e chiusa, il messaggio potrebbe essere: il nipote seguendo le tracce del nonno arriva a prenderne le parti. La risposta annessa sarebbe: e quindi? Ad un presupposto stuzzicante, ossia quello di ripercorrere la strada del proprio nonno ricostruendo una memoria, anche e soprattutto la memoria di una nazione attraverso le voci dei suoi abitanti, corrisponde una deriva eccentrica che non si equilibra bene con il resto. Tuttavia, a prescindere delle suddette osservazioni, l’idea di cinema di Villamediana vale un approfondimento.

lunedì 23 luglio 2018

Praça Walt Disney

Sorta di sinfonia urbana che potrebbe ricordare alla lontanissima la parte metropolitana di Koyaanisqatsi 1982), Praça Walt Disney (2011) di Sérgio Oliveira e Renata Pinheiro (collaboratrice di Assis in Bog of Beasts, 2006) si concentra su una carrellata di immagini legate alla vita quotidiana di Recife, è una giornata tipo che segue l’ordine temporale della natura dall’alba al tramonto, dentro c’è molto dell’umano odierno laddove al mattino non si mette più il piede giù dal letto ma lo si posa sull’acceleratore della propria macchina così come alla sera il tic delle portiere che si chiudono accompagna il calare del sole, è solo un esempio che compone questo quadro cittadino dove ci si appaia alla verticalità dei grattacieli (interessanti alcune vedute perpendicolari al suolo) per poi rimbalzare nella realtà delle spiagge e del traffico che i due registi si divertono pudicamente a manipolare. C’è da chiedersi quale sia il nesso che lega un breve documentario molto sui generis al suo titolo, ovvero: cosa c’entra Walt Disney? Bah, non lo so. A parte il galleggiare sul mare di un agglomerato di palloncini la cui forma ricorda la testa di Topolino e a parte l’utilizzo di colonne sonore relative (credo) a vecchi cartoni animati appiccicate sulle cartoline brasiliane, non vi è alcun laccio significante.

C’è da dire che la scelta di tali musiche suggerisce una dimensione parecchio giocosa al cortometraggio, il che, risintonizzandoci sulla suggestione iniziale, ci allontana parecchio da Reggio che manteneva un certo tono epico ed universale nel suo film, non che se Oliveira e Pinheiro abbiano scelto una strada diversa siano degli sprovveduti, ma osservando il risultato complessivo il sottoscritto ritiene che non tutto il potenziale sia stato sfruttato a dovere perché nei paesaggi d’asfalto e cemento, di potenziale, ce n’è eccome (e Malick con The Tree of Life [2011] non ha mancato di ricordarcelo), però qui quello che posso dire è che le cose non vanno troppo e che a tratti sembra quasi di trovarci dentro la pubblicità di un qualche marchio automobilistico. Film instabile quindi, dove si alternano momenti incuriosenti (le vecchie foto sovrapposte ai luoghi come sono oggi, il finale casalingo) ad un senso generale dagli ingranaggi scricchiolanti, si veda la faccenda della Piazza che sicuramente avrà il suo motivo d’essere data una centralità oltre che planimetrica anche filmica (è lì che alla fine compare Mickey Mouse insieme ad altri personaggi), ma la voglia di ricercare la plausibile comprensione è di una scarsità allarmante, per cui: next, please.

venerdì 20 luglio 2018

Jaurès

Lodevolissimo saggio sulle capacità organiche del cinema, i tessuti, le connessioni, gli apparati, le forme, ogni aspetto in Jaurès (2012) si collega all’altro non avendo, almeno in teoria, un’effettiva conciliabilità, eppure, nonostante questo sia un film anche di teoria, il corpo che si presenta a noi ha componenti sì diverse ma nella pratica perfettamente funzionali le une in relazione alle altre, e Vincent Dieutre non è un dottor Frankenstein che si diverte ad assemblare metodi e temi agli opposti (fare un film sentimentale utilizzando un canale documentaristico che si focalizza su degli immigrati afghani? Sì, è sorprendentemente così), anche se forse un po’ lo è, ma ciò che è più di un po’ non è davvero scritto alla voce “professione” sulla carta di identità, ché tutti sono registi e a noi poco interessa, no, Dieutre lascia filtrare una cifra umana, una corrente empatica, una capacità di raccontare e raccontarsi che vanno al di là delle etichette lavorative, qui dentro c’è amore, e non solo per ciò che viene esposto frontalmente (la liaison con Simon), comunque talmente fertile di per sé da poter colmare i bisogni di chi assiste, c’è amore, cura e dedizione verso il cinema, propensioni che si traducono in una delicata attenzione a rinverdire le grammatiche della fiction ibridata, quella per cui un’opera è troppo vera per essere falsa o viceversa, tradotto: non sappiamo se l’impalcatura impostata da Vincent sia, appunto, una costruzione, o se i filmati “rear window” siano stati davvero girati da lui e se soprattutto Simon sia esistito o meno nella realtà, ma in fondo di che realtà parliamo se gli oggetti, a volte, si cartonizzano? E ancora: è più importante avere una risposta o poter sostare nell’ampiezza sconfinata del dubbio?

Una chiave di lettura presa da Mymovies e che appoggio in pieno (link) vedrebbe nella duplice essenza della pellicola un pregevole gioco di specchi per cui ciò che accade di fronte alla metro di Jaurès non è altro che il riflesso del singolo uomo-Vincent a sua volta clandestino nella casa del compagno. Il rimpallo concettuale, ne converrete, è a dir poco pregevole perché ingioiella interamente l’impianto globale, se ci pensiamo un attimo è molto, ma molto bello il congegno con cui Dieutre ha voluto rievocare un affetto perduto, è riuscito a trasmettere una questione strettamente personale e interna attraverso una veduta antitetica, assolutamente estranea ed esterna alla traccia emotiva portante. E, semplicemente, anche se non è così semplice, il film fluisce lungo le lande di una nostalgia che non è la nostra sebbene in qualche modo riesca ad esserlo. Alla fine quanto ci tocca si inscrive sempre in un registro universale da cui possiamo desumere briciole del nostro sentire, ed il fatto che una tale verticalità si stagli da Jaurès, oggetto più che mai intimo (ma dalla struttura esemplare), ci fa un gran bene sia se indossiamo i panni del cinefilo che della persona che sopravvive in questo mondo.

mercoledì 18 luglio 2018

Chuck Norris vs. Communism

Come già ampiamente ripetuto da queste parti, se c’è un Paese al mondo che ha saputo far confluire le sofferenze di una politica opprimente nel cinema, questo Paese è la Romania, e Chuck Norris vs. Communism (2015) è un altro tassello di quello che potrebbe definirsi come un auto-esorcismo incaricato di espellere i demoni depositati da Ceaușescu. Il motivo per cui la nazione in oggetto ha vissuto dagli anni duemila in poi una continua fioritura in campo cinematografico potrebbe essere proprio spiegato dal film di Ilinca Calugareanu, attiva principalmente come montatrice, che sviluppa e amplia un suo brevissimo documentario dal titolo VHS vs. Communism (2014); la Calugareanu, avvalendosi di interviste a persone che vissero sotto il regime e che forse oggidì lavorano nella settima arte (si riconosce chiaramente Adrian Sitaru e credo anche Corneliu Porumboiu), illustra di come al tempo dell’embargo gli unici esemplari di film che passavano in televisione erano di stampo propagandistico, al che, per mezzo di maglie non del tutto serrate, la circolazione di videocassette piratate iniziò a diffondersi nelle case dei rumeni che ipnotizzati dallo sfavillante mondo oltre la cortina di ferro potevano assaporare il progresso dell’occidente. Per tale ragione è dunque possibile vedere nello smercio clandestino di film la creazione di una scintilla che ha iniziato ad ardere solo dopo il 1989 nel petto di un Cristian Mungiu qualunque.

Gli stessi soggetti che compaiono in Chuck Norris vs. Communism affermano che il passaparola tra conoscenti, gli incontri furtivi per comprare le cassette e le visioni condivise nelle abitazioni di qualche fortunato in possesso di un videoregistratore, facevano sì che il guardare-un-film divenisse un atto di resistenza contro le opprimenti regole imposte dallo Stato. Ciò non può che suscitare un sentimento di romanticismo nel nostro cuore di fruitori visto che l’arte ha potenzialità che sanno andare oltre il mero consumo e che il cinema è una potente leva in grado di aprire la mente (pure Tom Hanks lo conferma date le sue opinioni in merito, vedi pagina di IMDb, link). Ad avvalorare una dimensione così importante nel contesto sociale dell’epoca, va rimarcato che le suddette visioni non erano ovviamente di qualità elevata poiché le VHS che si moltiplicavano in giro per la Romania perdevano smalto di copia in copia arrivando quasi a non essere più proiettabili e lasciando alla sempre attonita platea il compito fertilizzante di immaginare il resto. Ma soprattutto, e qui giungiamo all’aspetto più curioso della vicenda, non essendoci la possibilità di doppiare le opere in modo convenzionale, un uomo di nome Teodor Zamfir, un uomo-ombra ben inserito nei meccanismi del potere, assoldò Irina Nistor, già al lavoro con i prodotti iper-castrati dalla censura, per tradurre on air le battute degli attori americani. Il risultato, sebbene orribile per il nostro apparato uditivo, ha reso la signora Nistor una specie di idolo per migliaia di rumeni che la videro da sempre come una guida verso il mondo dorato: “per me non ha un corpo, è una figura, è un’entità, è La voce”. Insomma, di belle storie ce ne sono ancora da raccontare.

Il rovescio della medaglia è che ad un fine così lodevole pieno di bei propositi si coniuga una realizzazione un po’ furbetta che si avvale di molti soldi, oltre ottocentomila dollari (cfr. ancora la pagina IMDB), e di un tasso di professionalità sospettosamente sopra gli standard. Per dire, un Metrobranding (2010), che in fondo si occupava di argomenti molto simili, a confronto sfiora l’amatorialità, ad ogni modo la patina estetica che non lesina una plastificazione inopportuna ha una concentrazione intollerabile di finzione quando vengono ricreati alcuni episodi narrati dai veri personaggi [1]. Al pari degli inserti fittizi in Mea Maxima Culpa (2012) è fastidioso constatare la necessità da parte della Calugareanu di dover ricorrere ad un impianto di rappresentazione per poter veicolare le tematiche del suo film, è probabile che non lo si metta in conto ma agendo in tal maniera si sottostima chi guarda come se non riuscisse nemmeno ad immaginare una realtà ulteriore a quelle preconfezionate con attori, troupe e ciak. In un documentario che vuole ripercorrere la Storia non si avverte proprio la necessità di accrescere il messaggio con intensificazioni del genere, d’altronde non c’è niente di più acuto e penetrante del reale (le immagini d’archivio della folla sterminata di Bucarest e le parole di Ion Caramitru), The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010) docet.
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[1] L’impacchettamento USA-style per farsi apprezzare oltreoceano è più di una supposizione, non per niente Chuck Norris vs. Communism è stato presentato al Sundance ’15 e successivamente in altri festival in giro per l’America. E non c’è da stupirsi, qui alla fine si celebra di brutto il cinema a stelle e strisce, per fortuna i registi rumeni della nuova generazione hanno poi preso strade diverse…