Cinema essenziale. Il documentario di Gianfranco Rosi frutto di un’inchiesta in prima linea condotta dal giornalista americano Charles Bowden, non ha orpelli superflui, accessori futili, ornamenti estetici: è crudo e diretto, assolutamente spietato nell’immortalare con piani fissi il profluvio incessante di parole che per un’ora e venti riempiono la stanza di un motel uscito da un film dei fratelli Coen. Ma la rappresentazione cede il passo alla realtà tanto che proprio quella stanza, in passato, è stata il set principale di efferatezze visibili al massimo in qualche crime-movie ultra violento. C’è un’atmosfera pesante, claustrofobica, che le panoramiche esterne non riescono a mitigare, anche perché il protagonista così incappucciato assomiglia ad un boia, o, più figurativamente, ad un uomo che al posto della testa ha una macchia nera, pece che tinge le sue affermazioni: il fenomeno dilagante della polizia messicana corrotta, la spietatezza del lavoro, le torture inflitte ai malcapitati, gli effetti collaterali come dipendenza dall’alcol e dalle droghe. In questo storytelling di frontiera, non solo geografica, il sicario si carica di ogni onere narrativo diventando ben presto il fulcro assoluto del racconto, la fonte della verità che viene inchiostrata con scatti rabbiosi su un quaderno d’appunti, come a voler esorcizzare con la rapida sfogliata del finale quel libro (/quella vita) pieno di violenza, sopraffazione e morte.
È cinema essenziale perché la sua cifra radicalmente pragmatica stimola l’immaginazione; nulla viene fatto vedere eppure non si fa fatica a pensarlo. Le immagini si generano dal monologo del killer che sembra essere molto a suo agio di fronte alla mdp, anzi nelle vesti di attore l’assassino propone un repertorio da star in cui si lancia in ricostruzioni che, grazie alla qualità di stimolare appena citata, hanno un forte impatto nello sguardo al di qua dello schermo, e il trasporto emotivo, la partecipazione personale di questo personaggio così ingombrante, è rintracciabile sia nella simulazione di un rapimento con annesse angherie, sia nell’incontro con un gruppo religioso capace di riscattare l’anima peccatrice. Noi vogliamo credere a questa conversione che appariva impossibile perché è bello, perché nel passaggio da patrón a patrón (cit. Rosi) il mondo intollerabile fino a quel momento illustrato assume una sfumatura più chiara, sotto quel velo nero, finalmente, sarebbe proprio confortante, un profilo quasi umano.
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