Divertissement parkiano imbevuto di ludicità e personale esibizonismo, oppure ulteriore tessera di una politica autoriale di estetica detonante e corrispettivo straniamento orientale?
Una nuova frontiera del cinema che per sua natura è proteiforme e trova sempre ulteriori strumenti di produzione in relazione al contesto storico in cui vive, o magari nient’altro che un’operazione di marketing con un bel po’ di pubblicità gratuita per la buonanima di Steve Jobs?
In attesa delle risposte, una piccola certezza vedendo Paranmanjang (2011), girato insieme al fratello Park Chan-kyong, è che quando si affronta un film di Park Chan-wook bisogna liberare la testa per emanciparsi dalla trilogia della vendetta. Aspettarsi sempre qualcosa di simile ad Oldboy (2003) è sbagliato perché il regista fa giustamente quello che gli pare e piace – da Lady vendetta (2005) in avanti ha mischiato i generi proponendo la sua idea di commedia e di melò – e questo cortometraggio incarna la libertà di cui dispone: girare un film con un telefonino, un cellulare che possono avere tutti in tasca, sfruttandone alcune caratteristiche interne come la modalità notturna e, a quanto pare, la resistenza subacquea.
Il risultato sul piano visivo ha i suoi meriti, con ad esempio le riprese al chiaro di luna che data la bassa fedeltà si trasformano in un grigio e nero demodé, ma Park vuole calcare la mano per mostrare la malleabilità del mezzo (o forse la sua bravura), ed ecco plongée, zoomate e quant’altro è possibile rintracciare in un film “normale”.
La curiosità verso le procedure di realizzazione supera probabilmente quella nei confronti di un contenuto suppergiù accattivante, costituito da una bipartizione che esalta il contrasto fra buio e luce, attraente per la tiritera già sottolineata ampiamente da queste parti della differenza culturale, moderatamente sorprendente per il colpo di scena che è, o vorrebbe essere, il punto di forza del racconto.
Divagazione cinefila.
A Chan-wook piace molto “allacciare” le persone tra di loro, lo fa qui con il pescatore e la medium, ma lo aveva fatto anche in passato con gli elastici di I’m a Cyborg, But That’s OK (2006) già visti comunque nel segmento Cut all’interno di Three… Extremes (2004).
Tuttavia quando si parla di ami, lenze e pesca in ambito coreano non può che venire alla mente L’isola (2000) di Kim Ki-duk.
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