Il processo umanamente deleterio della prostituzione coatta se trasportato su pellicola difficilmente sfuggirà ad uno schema così riassumibile: condizione esistenziale insoddisfacente della protagonista (solitamente povera, ma bella); tentativo di riabilitare la propria vita (seguono false promesse da altre persone); entrata riluttante nel circolo del sesso e salato scotto da pagare (ad ogni rifiuto corrisponde un atto violento); crollo mentale e fisico di fronte all’imponenza del sistema, segue finale solitamente negativo. Il modello è all’incirca questo, e la portoghese Teresa Villaverde per il suo Transe (2006) lo propone in cotanta ordinarietà: ecco Sónia, ragazza russa, che nella sua terra natia dove non crescono fiori (e il freddo non c’entra) ha qualche problema, così se ne parte per l’Europa dove, manco a dirlo, la aspetta una realtà nera come la notte.
Quindi, ancora una volta a far la differenza non sono tanto i contenuti, ma l’aspetto con cui ci vengono proposti, e qui iniziano le noti dolenti.
Dolentissime. Tralasciando le premesse banali e senza nerbo che portano Sónia ad emigrare, con lo srotolamento del racconto i passaggi narrativi sono colmi di interrogativa nebulosità.
Il rapido adescamento lascia dietro di sé parecchi vuoti di senso (perché la infilano nel bagagliaio? Perché il tizio la lascia in una vasca per ore?), a ciò segue l’entrata in un bordello italiano che trasuda odore di preconfezionato da ogni singola inquadratura. Fino a qui niente di memorabile ma nemmeno nulla di fastidioso, purtroppo la situazione precipita rapidamente quando Sónia viene portata nella casa del riccastro. Al di là della palpabile recisione con ciò che fino a quel momento abbiamo visto, si giunge nel giro di 2 o 3 scene alla ridicolaggine TOTALE con il figlio scemo che, ad esempio, è obbligato a vedere il suo servo (è Filippo Timi, poveretto) copulare con i pantaloni praticamente allacciati, roba da brividi che non si vedeva dai tempi de La bestia in calore (1977).
Il bello è che si riesce anche a far peggio di così inserendo un immotivato segmento di zoofilia che vorrebbe richiamare l’attenzione di qualche cine-allocco.
Se poi si aggiungono flashback scollati agli eventi principali come l’incipit o un bambino che appare più volte, il mix indigeribile è pronto da servire.
Questa Villaverde ci tiene alla forma e allunga i tempi di ripresa come fanno i veri autori. Ma a lei le cose non riescono affatto bene e l’accumulo di piani statici come le fronde degli alberi che si stagliano sul cielo grigio o un uomo che percorre una strada fino in fondo, sono espedienti inutili se ad essi non vengono controbilanciati dei cambi di ritmo soddisfacenti. E la drammaticità degli eventi non può certo concretizzare questa antitesi perché se si utilizza il pisello di un cane come punta di un processo parossistico allora siamo messi molto ma molto male.
Se l’inizio poteva lasciar intravedere qualche possibilità di buona riuscita, Transe alla fine della favola si dimostra cinema debole sia nella struttura che nell’esposizione con l’aggravante che, a tratti, sa perfino essere urticante.
Altri film presenti su queste pagine che toccano – meglio – il tema:
Iracema (1974)
Your Name Is Justine (2005)
Angels of the Sun (2006)
Pleasure Factory (2007)
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