Film del 2007 tutto ambientato in Francia, ma diretto da mano spagnola, quella di José Luis Guerín, dotato di ragguardevole particolarità. Opera consapevole della propria identità stilistica già dalla prima scena in cui riprende senza paura e in assoluto silenzio il protagonista immobile sul letto d’albergo per una buona manciata di minuti. Al di fuori dell’hotel la cartolina solare delle strade percorse da cittadini come tanti è resa con gusto delle misure attraverso un’oculata scelta delle angolazioni. Ma si entra nel vivo con il blocco del bar dove la forma si appaia al contenuto. In questo frangente sono infatti gli espedienti tecnici come l’alternanza di campi ed il montaggio a creare e sostenere la narrazione, la mdp diventa lo sguardo del ragazzo seduto al tavolino in un pingpong di visi, espressioni, smorfie, sorrisi e quant’altro si può fare mentre si sorseggia un caffè con qualcuno.
Guerín imbeve la propria creatura di ludicità (pare che sia anche un educatore) ovviando le normali prassi di strutturazione e dando così un tu atipico allo spettatore.
Nel lungo segmento in cui él segue la sua Sylvia comincia già un processo di iterazione che da qui in poi si ripercuoterà fino alla fine. Nello spazio visivo ritornano delle persone che prima sono state distrattamente notate (un barbone, un vucumprà) e che con la stessa nonchalance si muovono per le viuzze acciottolate di Strasburgo. Ma non solo! Oltre agli uomini, il regista opta anche per una ripetizione dei luoghi (l’entrata dell’albergo, il muro con la scritta), rime visive che hanno il pregio di fornire un ritmo laddove il ritmo è praticamente inesistente. L’incanto prosegue all’interno del bus in cui lui riesce finalmente ad avvicinare lei. Il dialogo si svolge con l’effetto riuscito di uno sfondo molto dinamico che sembra quasi l’escamotage dei vecchi film in cui non è la macchina a muoversi ma la scenografia intorno. Ma appurato l’errore, il film dirigendosi verso il finale ha la colpa, seppur piccola, di non sancire nulla, né di chiosare in crescendo, ma anzi di continuare il suo passeggio onirico in un paesaggio altrettanto sognante.
Il difetto, come detto, è di poco conto perché l’assenza di un punto alla fine del racconto va comunque registrata come operazione non convenzionale, se però Guerín avesse maggiormente tirato le fila nella conclusione, per una sorta di completezza organica ne avrebbe giovato anche tutta la lunghissima parte introduttiva.
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