Filmare uno stato emotivo, un concetto coniato da un antropologo francese per indicare la condizione mentale e fisica dei cacciatori mentre svolgono la loro attività venatoria, “jagdfieber” è perciò qualcosa che non appartiene al campo del visibile, è pura sensazione, fibrillazione, attesa, immersione, ecco: quello di Alessandro Comodin, qui al suo esordio, è cinema immersivo, discesa sotto la patina della rappresentazione che comporta una navigazione silente e presente nel reale, anzi: un pedinamento della realtà, come se il regista venga (s)mosso da una smania non dissimile da quella dei cacciatori; “febbre del vedere”, di seguire come ne L’estate di Giacomo (2011) la presenza dell’uomo nella natura (è il sud della Francia), e di presentarlo con ordinari primi piani, vagamente dumontiani, che lo trasformano in un libro da sfogliare sullo schermo.
Si accolgono, senza altre possibilità, le percezioni emanate: c’è odore di trepidazione in questo documentario breve, sensazione che scaturisce dai formicolanti tremolii del bosco, dagli abbai lontani, dai passi che schiacciano le foglie secche facendo crack, crack, crack, e poi stop, ancora un’attesa a cui si lega inestricabilmente la speranza. E il cinema è lì, in simbiosi con il predatore, che trattiene il fiato ma che non può trattenersi dall’afferrare ciò che gli sta davanti, almeno fino all’avvenuta cattura della preda celata dai cespugli, forse però abilmente anticipata con l’immagine di quell’occhio animale che apre il film.
Febbre del vedere, appunto.
"Profilo degli alberi secchi, spezzarsi scrosciante di stecchi, sul monte, ogni tanto, gli spari e cadono urlando di morte gli animali ignari..."
RispondiElimina(F. Guccini)