giovedì 20 settembre 2012

Le palme delle mani

Opera fatiscente, terminale, medioevale, film attratto da due poli così opposti e così complementari (teologia e antropologia), pellicola ombelicale in una forma di appartenenza registica senza eguali (“questa è la mia vita”), da Ladoni (1994) non c’è alcuna via di fuga: esordio di Aristakisian con il quale si diplomò alla scuola cinematografica moscovita, inevitabile sorgente artistica per L’ultimo posto sulla Terra (2001), palcoscenico di detriti, di rifiuti, di reietti, di deformi, di storpi, di mendicanti, di epilettici, di ciechi, di pazzi, presentazione (e non rappresentazione!) di un mondo che alle soglie del nuovo millennio sembra regredito di secoli e secoli, carrellata estenuante su corpi umani che, come in The House is Black (1963), perdono pezzi, marciscono nelle acque limacciose di una vita che non conosce sorriso o carezza, zona a-cinematografica che va oltre la letteralità del cinema abituale, lunga, lunghissima testimonianza sullo stato di cose nell’immediato post-URSS e accusa dinamitante nei confronti del sistema: politico, culturale e religioso.
No, da Le palme delle mani non se ne esce facilmente.

La distorsione che tocca maggiormente le corde della sensibilità è la presa coscienza di una realtà che appare parallela rispetto all’era in cui è ambientata. Ad infliggere un tono apocalittico sono certamente i fotogrammi incolore di Aristakisian anch’essi prossimi al deterioramento, ma è proprio l’incursione del moldavo negli scantinati della piramide sociale ad erigere giganteschi punti di domanda in merito all’epoca moderna; i volti delle persone, i loro occhi e la condizione in cui sono costretti a campare rendono Ladoni un requiem su celluloide a cui è difficile abituarsi perché al pari del secondo e per ora ultimo film di Aristakisian, si tratta di un capitolo della storia del cinema tanto sotterraneo quanto scomodo, disagio interno che nasce dalla visione di una sensazione: quella del baratro, del buio, del non ritorno, sì, le immagini di Palms spurgano Morte come il pus di vermi schiacciati lentamente, suggeriscono l’irreversibilità della fine e la conclamano in ogni singolo episodio, perché a differenza di Dark Days (2000) i bisognosi di Kishinev non avranno mai un’altra possibilità nel mondo (e ciò viene confermato qualche anno dopo con Mesto na zemle), sono certi solo di una cosa: che moriranno, ovviamente soli.

Aristakisian non si ferma ai fatti e su questo plumbeo scenario ricama una filigrana di finzione in forma epistolare. È un atto non dissimile da quelle intensificazioni che caratterizzano alcuni documentari di Herzog (vedasi L’ignoto spazio profondo, 2005) dove il cinema ha la forza di manipolare la realtà in modo da permettere al regista di centrare gli obiettivi semantici. Tali obiettivi non riguardano una qualsivoglia denuncia sociale che sottolinei la precaria esistenza dei senzatetto, tutt’altro poiché Aristakisian vedendo gli homeless come l’antidoto al sistema e non come gli scarti di esso,  li “utilizza” per enucleare i precetti di un pensiero controcorrente, redentivo, ridondante. È una distorsione ancora più potente frutto di postulati paradossali (“figlio mio, diventa povero”) che però sono in grado di stagliarsi contro gli eccessi di una vorace società cannibale.
La retta via è quella degli straccioni, di chi non avendo nulla, nemmeno lo spirito, non ha nemmeno nulla da perdere.

APPENDICE (Qual è il tuo nome?)

È un fatto buffo: nemmeno l’autorità più infallibile della nostra era, Internet, riesce a svelare il mistero del nome di Aristakisian, in molti siti viene scritto con –jan finale, in altri ancora con –yan. Io mi sono affidato alla sapienza di IMDb che lo indica con la “i”, anche se ho l’impressione che la verità la sappia solo lui. La stessa indeterminatezza regna per i titoli italiani dei suoi film, di Ladoni si legge in giro La palma della mano o I palmi delle mani, tuttavia sulla copertina del DVD della Raro Video c’è scritto Le palme delle mani e me ne sto così, idem per Mesto na zemle che oscilla tra Un posto sulla Terra e L’ultimo posto sulla Terra, anche qui io mi fido di ciò che è andato sugli scaffali dei negozi. È roba lanacaprinesca che però aumenta l’aura pressoché mistica intorno a questo regista il quale ha affermato che il compito del cinema è quello di risvegliare le cellule dormienti del nostro cervello, con i suoi due film fuori dal tempo eppure avvinghiati alla contemporaneità Artour Aristakisian possiamo dire che ce l’ha fatta.

7 commenti:

  1. riesci sempre a incuriosirmi..non lo conosco e me lo cerco subito..grazie carissimo

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  2. Vale anche per me! continua così...

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  3. spero di vincere un Nobel per la blogologia!

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  4. non conoscevo "Dark days", lo so recuperando.

    ho visto su Imdb che il regista di "Dark days" non ha fatto altro, come anche Aristakisian, che ha fatto poco, o non trovano produttori/finanziatori o quei film "consumano".

    penso a Gesù e a San Francesco, beati i poveri, loro è il regno dei cieli, tutti pregano e sono d'accordo, poi passi nelle nostre città e persone come quelle del film di Aristakisian sono sotto i nostri occhi sempre, ma giriamo lo sguardo.
    Aristakisian ci costringe e vederli per 140 minuti, e non ci sentiamo mica bene.

    il film è comunque unico e indimenticabile, e dire che è un film coraggioso è troppo poco.

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  5. Dark Days è più convenzionale se mi passi il termine, ma sa comunque ledere. Sarebbe bello se entrambi i registi, in questo periodo così nero, tornassero a donarci la loro visione del mondo.

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  6. Un po' come la cultura, c'è chi lo dice, sta fra la materia e la spiritualità, fra il razionalismo e l'artistico, come tu hai ben detto il racconto di quest'uomo e di questi luoghi dell'anima e dei corpi sono a metà fra teologia (forse più semplicemente fede, intesa proprio coma Passione cristiana?) e antropologia. Incredibile e bellissimo.

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  7. cinema della fine, e quindi sì, anche se non lo rivela apertamente, è film cristologico.

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