In un villaggio del Brasile la piccola Maria viene strappata (leggi venduta) dalla sua famiglia per finire nella scuderia di una ma’am che a sua volta la sdoganerà ad un laido fazendero il quale stufatosi subito di lei la caricherà su un aereo per destinarla in un bordello a due passi dalla giungla.
Piccolo film brasiliano del 2006 diretto da un certo Rudi Lagemann.
L’opening scene è bellissima: una barchetta a pelo d’acqua con un sole malinconicamente arancione sullo sfondo. Sarà una costante quella degli ambienti affascinanti, sconosciuti ad occhio occidentale, sminuiti da una storia priva di mordente sebbene l’argomento abbia un’urgenza sociale improcrastinabile. Si parla di prostituzione minorile (la protagonista ha 12 anni!) in un paese che sembra lontano da una forma accettabile di civiltà; i genitori che vendono la propria figlia al trafficante di turno danno il via ad un processo irreversibile di spersonalizzazione che vede la fragile Maria passare da bambina-soggetto a donna-oggetto in un batter di ciglia. Essa viene risucchiata in un sistema disumano privo di sentimento, prossimità, riconoscenza. Le ragazze si comprano ad un’asta, vengono uccise se tentano la fuga, sono inutili se si ammalano perché impossibilitate a lavorare. Insomma, non pare esserci un via di fuga per questo angelo; anche la città le riserverà brutte sorprese, anzi è proprio qui che Maria si arrende all’infame destino. Non avendo una direzione (“dove vai?”, chiede il camionista “ovunque”, risponde lei) e nemmeno più un nome, alla fine non è più Maria ma Isabelle, abbandona se stessa al regime immorale che si dipana nel suo paese.
Come avrete intuito gli argomenti sono tosti, tuttavia al pari di Your Name Is Justine (2005) la pellicola non colpisce come dovrebbe e potrebbe, informa sì, e ciò non può che essere un bene, però rimane lontano dagli occhi e soprattutto dallo stomaco.
La resa dei personaggi è banalotta nonché fortemente stereotipata, vedasi il protettore Saraiva, un ottimo Antonio Calloni, che ha tutti i connotati della categoria, ed è fin troppo orientata al condizionamento dello spettatore su come e con chi schierarsi.
La regia è contenuta. Non solo non mostra niente di scabroso – e ci può stare – ma trasmette la sensazione di artifizio, di costruzione, di fittizia riproduzione della realtà. Non si sente la disperazione, la fede nella speranza. È piuttosto un precipitato blando, filtrato da un’impostazione televisiva per cui il male c’è, è dietro l’angolo, ma è meglio non farlo vedere troppo chiaramente al vasto pubblico.
Non distribuito da noi, Anjos do Sol può andare per una visione più leggera ma nemmeno troppo disimpegnata. Se però cercate un film dal taglio realistico sulla schiavitù sessuale in Brasile, ammesso che esista qualcuno interessato all’argomento, siete ben lontani dal vostro obiettivo.
Piccolo film brasiliano del 2006 diretto da un certo Rudi Lagemann.
L’opening scene è bellissima: una barchetta a pelo d’acqua con un sole malinconicamente arancione sullo sfondo. Sarà una costante quella degli ambienti affascinanti, sconosciuti ad occhio occidentale, sminuiti da una storia priva di mordente sebbene l’argomento abbia un’urgenza sociale improcrastinabile. Si parla di prostituzione minorile (la protagonista ha 12 anni!) in un paese che sembra lontano da una forma accettabile di civiltà; i genitori che vendono la propria figlia al trafficante di turno danno il via ad un processo irreversibile di spersonalizzazione che vede la fragile Maria passare da bambina-soggetto a donna-oggetto in un batter di ciglia. Essa viene risucchiata in un sistema disumano privo di sentimento, prossimità, riconoscenza. Le ragazze si comprano ad un’asta, vengono uccise se tentano la fuga, sono inutili se si ammalano perché impossibilitate a lavorare. Insomma, non pare esserci un via di fuga per questo angelo; anche la città le riserverà brutte sorprese, anzi è proprio qui che Maria si arrende all’infame destino. Non avendo una direzione (“dove vai?”, chiede il camionista “ovunque”, risponde lei) e nemmeno più un nome, alla fine non è più Maria ma Isabelle, abbandona se stessa al regime immorale che si dipana nel suo paese.
Come avrete intuito gli argomenti sono tosti, tuttavia al pari di Your Name Is Justine (2005) la pellicola non colpisce come dovrebbe e potrebbe, informa sì, e ciò non può che essere un bene, però rimane lontano dagli occhi e soprattutto dallo stomaco.
La resa dei personaggi è banalotta nonché fortemente stereotipata, vedasi il protettore Saraiva, un ottimo Antonio Calloni, che ha tutti i connotati della categoria, ed è fin troppo orientata al condizionamento dello spettatore su come e con chi schierarsi.
La regia è contenuta. Non solo non mostra niente di scabroso – e ci può stare – ma trasmette la sensazione di artifizio, di costruzione, di fittizia riproduzione della realtà. Non si sente la disperazione, la fede nella speranza. È piuttosto un precipitato blando, filtrato da un’impostazione televisiva per cui il male c’è, è dietro l’angolo, ma è meglio non farlo vedere troppo chiaramente al vasto pubblico.
Non distribuito da noi, Anjos do Sol può andare per una visione più leggera ma nemmeno troppo disimpegnata. Se però cercate un film dal taglio realistico sulla schiavitù sessuale in Brasile, ammesso che esista qualcuno interessato all’argomento, siete ben lontani dal vostro obiettivo.
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