Lodevolissimo
saggio sulle capacità organiche del cinema, i tessuti, le
connessioni, gli apparati, le forme, ogni aspetto in Jaurès
(2012) si collega all’altro non avendo, almeno in teoria, un’effettiva
conciliabilità, eppure, nonostante questo sia un film anche
di teoria, il corpo che si presenta a noi ha componenti sì diverse
ma nella pratica perfettamente funzionali le une in relazione alle
altre, e Vincent Dieutre non è un dottor Frankenstein che si diverte
ad assemblare metodi e temi agli opposti (fare un film sentimentale
utilizzando un canale documentaristico che si focalizza su degli
immigrati afghani? Sì, è sorprendentemente così), anche se forse
un po’ lo è, ma ciò che è più di un po’ non è davvero
scritto alla voce “professione” sulla carta di identità, ché
tutti sono registi e a noi poco interessa, no, Dieutre lascia
filtrare una cifra umana, una corrente empatica, una capacità di
raccontare e raccontarsi che vanno al di là delle etichette
lavorative, qui dentro c’è amore, e non solo per ciò che viene
esposto frontalmente (la liaison
con Simon), comunque talmente fertile di per sé da poter colmare i
bisogni di chi assiste, c’è amore, cura e dedizione verso il
cinema, propensioni che si traducono in una delicata attenzione a
rinverdire le grammatiche della fiction ibridata, quella per cui
un’opera è troppo vera per essere falsa o viceversa, tradotto: non
sappiamo se l’impalcatura impostata da Vincent sia, appunto, una
costruzione, o se i filmati “rear window” siano stati davvero
girati da lui e se soprattutto Simon sia esistito o meno nella
realtà, ma in fondo di che realtà parliamo se gli oggetti, a volte,
si cartonizzano? E ancora: è più importante avere una risposta o
poter sostare nell’ampiezza sconfinata del dubbio?
Una
chiave di lettura presa da Mymovies e che appoggio in pieno (link)
vedrebbe nella duplice essenza della pellicola un pregevole gioco di
specchi per cui ciò che accade di fronte alla metro di Jaurès non è
altro che il riflesso del singolo uomo-Vincent a sua volta
clandestino nella casa del compagno. Il rimpallo concettuale, ne
converrete, è a dir poco pregevole perché ingioiella interamente
l’impianto globale, se ci pensiamo un attimo è molto, ma molto
bello il congegno con cui Dieutre ha voluto rievocare un affetto
perduto, è riuscito a trasmettere una questione strettamente
personale e interna attraverso una veduta antitetica, assolutamente
estranea ed esterna alla traccia emotiva portante. E, semplicemente,
anche se non è così semplice,
il film fluisce lungo le lande di una nostalgia che non è la nostra
sebbene in qualche modo riesca ad esserlo. Alla fine quanto ci tocca
si inscrive sempre in un registro universale da cui possiamo desumere
briciole del nostro sentire, ed il fatto che una tale verticalità si
stagli da Jaurès,
oggetto più che mai intimo (ma dalla struttura esemplare), ci fa un
gran bene sia se indossiamo i panni del cinefilo che della persona
che sopravvive in questo mondo.
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