venerdì 20 luglio 2018

Jaurès

Lodevolissimo saggio sulle capacità organiche del cinema, i tessuti, le connessioni, gli apparati, le forme, ogni aspetto in Jaurès (2012) si collega all’altro non avendo, almeno in teoria, un’effettiva conciliabilità, eppure, nonostante questo sia un film anche di teoria, il corpo che si presenta a noi ha componenti sì diverse ma nella pratica perfettamente funzionali le une in relazione alle altre, e Vincent Dieutre non è un dottor Frankenstein che si diverte ad assemblare metodi e temi agli opposti (fare un film sentimentale utilizzando un canale documentaristico che si focalizza su degli immigrati afghani? Sì, è sorprendentemente così), anche se forse un po’ lo è, ma ciò che è più di un po’ non è davvero scritto alla voce “professione” sulla carta di identità, ché tutti sono registi e a noi poco interessa, no, Dieutre lascia filtrare una cifra umana, una corrente empatica, una capacità di raccontare e raccontarsi che vanno al di là delle etichette lavorative, qui dentro c’è amore, e non solo per ciò che viene esposto frontalmente (la liaison con Simon), comunque talmente fertile di per sé da poter colmare i bisogni di chi assiste, c’è amore, cura e dedizione verso il cinema, propensioni che si traducono in una delicata attenzione a rinverdire le grammatiche della fiction ibridata, quella per cui un’opera è troppo vera per essere falsa o viceversa, tradotto: non sappiamo se l’impalcatura impostata da Vincent sia, appunto, una costruzione, o se i filmati “rear window” siano stati davvero girati da lui e se soprattutto Simon sia esistito o meno nella realtà, ma in fondo di che realtà parliamo se gli oggetti, a volte, si cartonizzano? E ancora: è più importante avere una risposta o poter sostare nell’ampiezza sconfinata del dubbio?

Una chiave di lettura presa da Mymovies e che appoggio in pieno (link) vedrebbe nella duplice essenza della pellicola un pregevole gioco di specchi per cui ciò che accade di fronte alla metro di Jaurès non è altro che il riflesso del singolo uomo-Vincent a sua volta clandestino nella casa del compagno. Il rimpallo concettuale, ne converrete, è a dir poco pregevole perché ingioiella interamente l’impianto globale, se ci pensiamo un attimo è molto, ma molto bello il congegno con cui Dieutre ha voluto rievocare un affetto perduto, è riuscito a trasmettere una questione strettamente personale e interna attraverso una veduta antitetica, assolutamente estranea ed esterna alla traccia emotiva portante. E, semplicemente, anche se non è così semplice, il film fluisce lungo le lande di una nostalgia che non è la nostra sebbene in qualche modo riesca ad esserlo. Alla fine quanto ci tocca si inscrive sempre in un registro universale da cui possiamo desumere briciole del nostro sentire, ed il fatto che una tale verticalità si stagli da Jaurès, oggetto più che mai intimo (ma dalla struttura esemplare), ci fa un gran bene sia se indossiamo i panni del cinefilo che della persona che sopravvive in questo mondo.

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