La prima
folgorante mezz’ora funge da apripista ad un corpo centrale non
meno sconquassato da allucinazioni e peripezie varie fino ad
un’ulteriore mezz’ora, ’sta volta conclusiva, che trasfigura il
film in un crescendo psichedelico: bello, bellissimo, Rey
(2017) riscrive a modo suo un personaggio storico non passato ai
libri di storia, tal Orélie-Antoine de Tounens, francese, avvocato,
autoproclamatosi Re di in uno stato immaginario vicino al Cile, ed è
una riscrittura pregevole che attinge a registri diversi donando un
respiro veramente ampio e, come accade sempre in casi del genere,
libero, affrancato dalle esigenze narrative e quindi piacevolmente
inselvatichito dall’estro creativo del demiurgo Niles Atallah, solo
al secondo lungometraggio, ma con le idee già chiare, anzi
annebbiate, confuse, ma di un caos che smuove, che ci fa dire oh come
è vivo questo cinema. Si diceva che il prologo incanta, con un
sottofondo sonoro che ci ricorda la matericità (passatemi il
termine) della pellicola, lo sfrigolio ed il farfallio a rimembrare
un’epoca passata, quasi mitica, al pari di quella dei
conquistadores (anche se il signor Tounens arriva fuori tempo massimo
rispetto ai suoi predecessori), e poi lo svincolo weird,
destabilizzante, non certo privo di fascino: la ricostruzione di un
processo dove accusa, corte ed imputato indossano maschere di
cartapesta, lo Stato (colonizzatore, quindi spagnolo) contro il
sogno, o la follia, del singolo, c’è qualcosa che richiama a
concetti più universali? Non è da escludere ma comunque è troppo
attraente questa storia donchisciottesca per lanciarsi in paralleli
interpretativi, il lavoro di Atallah spinge dentro la vicenda in sé,
decostruisce, destruttura e destoricizza fino a rappresentare il
delirio di un uomo solo.
Se vogliamo
buttare giù qualche nome c’è una vaga sintonia con El Movimiento (2015), location sudamericana e approccio laterale
alla Storia, più defilato potrei citare Jauja (2014) e ancor
più nelle retrovie le manifestazioni artistiche di Albert Serra,
infine, ma giusto per la presenza di “animaluomini” potrebbe
starci un rimando a Marquis (1989), Rey però ha uno
statuto autoriale di prima fascia che si fa forte della sua
indipendenza estetica, Atallah, più che regista videoartista
impegnato su diversi fronti, è riuscito a tradurre nel film la
febbrile ricerca di una sorta di El Dorado, il che richiama un
concetto che Herzog, ad esempio, dovrebbe conoscere bene e infatti
credo che se il tedesco vedesse Rey gli
si smuoverebbero certi sentimenti dentro (ormai smarriti). La Fame di
conquista, di conoscenza, forse anche di potere sebbene illusorio,
sono riversati in un furioso collage audio-visivo che esalta le
qualità connettive della settima arte: l’avventura si può unire
al muto, il film in costume al legal thriller (esagero),
l’avanguardia al repertorio, l’etnologia al surreale, e non è
affatto un consesso di velleità artistoidi ma la possibile
trasposizione della realtà circostante, il mondo è troppo complesso
ed una sola lettura, un solo metodo, una sola forma non sono
sufficienti per provare a comprenderlo, accogliamo allora a braccia
aperte opere come Rey, inconsapevole
cartina tornasole di ciò che c’è al di qua dello schermo e, se
non bastasse, portentoso blitz nella mente di un Re del niente, di un
essere umano perso nel tormento della sua impotenza.
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