Abbiamo già
ampiamente decodificato il sistema-Lanthimos: partire da un tema
portante (la famiglia; il lutto; l’amore) e trasportarlo in un
meccanismo paradossale dove attraverso una spinta esacerbazione si
metaforizza il tutto, non voglio parlare esplicitamente di dispotismo
ma lo ricreo in scala in un nucleo famigliare altamente deviato, non
voglio apparire didascalico nell’affrontare i sentimenti umani per
cui imbastisco un’allegoria dei suddetti portata all’esasperazione.
Con Il sacrificio del cervo sacro
(2017) le cose stanno così: non voglio trattare in modo diretto
l’argomento “senso di colpa” pertanto mi impegno a vestire tale
miccia narrativa con uno script che trasla la materia in oggetto
dentro ad un focolaio consanguineo. I limiti di un approccio del
genere, ovvero che il regista greco pur apparendo anticonvenzionale
alla fine non fa che conformarsi a se stesso autoimprigionandosi in
una gabbia figurativa, li avevo ravvisati ai tempi di The Lobster (2015), adesso non c’è stato un cambiamento significativo, magari con il film presentato
a Cannes ’17 ci si può impegnare a scovare qualche divergenza
(parliamo, forse, di un apparato simbolico un po’ meno manifesto
rispetto al passato), ma il cuore dell’opera batte in sostanza la
medesima strada. La portata illogica entra prepotentemente in campo
quando il diabolico Martin scopre le carte e si mostra per quel che
Lanthimos ed il fido Filippou hanno voluto che fosse: una piccola
piaga biblica, un contrappasso dantesco in Terra, e come sempre credo
tutti abbiamo pensato di fronte alle idee lanthimosiane c’è un
che di stuzzicante sui possibili sviluppi del racconto, il nodo da
sciogliere è: giunti alla quinta opera, e perciò forti di una
discreta dose di abitudine, possiamo venir ancora colpiti dal
codice-Yorgos?
La
riflessione soprastante fa subito da apripista ad un’altra: non
dovrebbe essere una colpa imputabile a Lanthimos quella di proporre,
anche con una rispettabile coerenza, un metodo artistico figlio di
uno stile riconoscibile, in fondo ogni grande maestro è passato ai
libri di storia per marchi di fabbrica identificabili nella massa
cinematografica, ma non sarà mica che l’impostazione autoriale
dell’ateniese al di là del primo impatto sia meno solida di quel
che appare? Risposta: mi assumo ogni responsabilità nel dire di sì. Prendiamo The Killing of a Sacred Deer,
pur non negando un mero coinvolgimento spettatoriale dato da un
livello professionale oramai altissimo unito al mantenimento di tic
personali (la recitazione alienata; l’attenzione estetica degli
interni), la piena soddisfazione non è raggiunta poiché capiamo di
trovarci al cospetto di quello che è più un prodotto da filiera che
un manufatto autentico, ovvio, si tratta di un lavoro dalla pregiata
confezione e sviante dalle frequenti banalità, ma non intacca più
di tanto la nostra coscienza pur essendo estremamente caustico,
sopratutto in termini di risoluzione sceneggiaturiale, sicché il
problema, a mio modo di sentire, è, appunto, che non si va più in
là della sceneggiatura, e non mi riferisco alle scelte che portano
all’atto brutale del medico né all’atto in sé, discutibile (dal
punto di vista filmico è la chiusura maggiormente fragile
dell’intera filmografia) finanche iconicamente derivativo (dài, un
bambino incapucciato nel salotto di casa: Haneke, mi ritorni in
mente), gli scricchiolii generali provengono a monte, dalla necessità
per Lanthimos di affidare il suo pensiero totalmente ed
esclusivamente ad una scrittura che sappiamo avere il pilota
automatico, se è vero che è meno importante il cosa del come,
adesso che conosciamo a menadito il come dell’ellenico non ci
divertiamo come una volta a stare al suo gioco.
Che
sia dunque arrivato il momento per una rivalutazione di Dogtooth
(2009)? Uhm, no. Ogni visione è
il risultato di un preciso momento storico e personale, ergo lasciamo
il capostipite lì dov’è, piuttosto volgiamo lo sguardo a Lanthimos e al futuro, pare ormai che la patria natia sia un ricordo
lontano, i progetti in cantiere dovrebbero essere addirittura tre
(una serie tv sempre con Farrell, un film tv con Kirsten Dunst e un
film in costume con Emma Stone e Rachel Weisz) con buona pace degli
inguaribili romantici che sperano di trovare illuminanti verità
lontano dai perimetri commerciali (presente!), per chi scrive
Lanthimos è libero di fare ciò che lo aggrada, ma se adotterà una
prassi diversa allora potrà incamerare nuovamente larghi consensi.
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