venerdì 29 giugno 2018

Roxy

Cortometraggio di neanche dodici minuti estrapolati da circa un’ora di materiale girato nell’arco di due giorni (non consecutivi) presso un motel di Palm Desert (California), un uomo e il suo cane, nient’altro. Questi sono i dati di Roxy (2010) che inquadrano il lavoro svolto dalla tuttofare Shirley Petchprapa (sceneggiatrice, regista, fonica, montatrice), ed è palese di quanto e come una autoproduzione del genere non possa tendere a nulla che non stia più in là del nostro naso, a visione ultimata una sensazione di esilità è quella che si propaga dal film stesso al quale però, nonostante la gracile costituzione, si possono anche riconoscere dei mirco-meriti, in particolare per la veste digitale offerta dalla Petchprapa che dondola tra messe a fuoco e annessi sfocamenti, che si incolla ai dettagli, che dà energia ad una situazione di normale esistenza dove non ci sarebbe nulla di interessante da vedere (… a parte il finale), e ciò che si crea, che striscia nell’impercettibilità, è comunque un’attesa per lo spettatore, la percezione di un’eventualità (negativa) che possa prima o poi accadere.

E come da tradizione per un corto narrativo (Roxy si può anche iscrivere alla categoria, però l’assenza di dialoghi e il tentativo di deviazione formale lo fanno parimenti allontanare da tale settore), al sopraggiungere della conclusione qualcosa succede. La regista non smarrisce il proprio tatto neanche di fronte al palesarsi del dramma poiché degli stacchi in ripetizione recidono ogni esibizione del gesto, la scelta però di piazzare un pezzo musicale proprio nel clou (si tratta di Muted Thunderstorms di Edison Woods) suona come un’intensificazione non proprio originale, e quindi si profila un livellamento nel punto che doveva essere vetta. Vabbè non sarà una canzone extra-diegetica a macchiare la prova della Petchprapa, in fondo la chiusura potrebbe trovare consensi perché dotata di un controfinale che stinge il nero e si riappropria dell’ossigeno grazie ad un flash canino, forse troppo mellifluo, forse, ma a ‘sto giro a Shirley gliela lasciamo passare.

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