giovedì 7 giugno 2018

All the Cities of the North

Non è un film attraente Svi severni gradovi (2016), almeno non nel concetto che si ha comunemente di attrazione, ciononostante il lungometraggio di debutto firmato da Dane Komljen, nato in Bosnia e formatosi in Croazia, invita ad un’indagine, a cercare risposte, confutazioni, chiarimenti. Alla base c’è sempre il discorso per cui non siamo abituati a performance visive che necessitano di una pazienza sottrattaci dal cinema diseducante, ed è buffo perché se ci sono proposte davvero aderenti alla vita che conduciamo queste hanno la paternità di Komljen o chi per lui e non di tutti gli altri che popolano le sale oggidì. Quindi All the Cities of the North si colloca in un realismo impavido che taglia via i dialoghi (accessorio che altrimenti avrebbe inquinato la naturalità della situazione) per concentrarsi sul minimalismo di un’esistenza, anzi di due, che non concedono niente a chi guarda: né spiegazioni né suggerimenti, del prima o del perché nulla viene detto e così una parvenza di coppia abita in quello che è un complesso alberghiero abbandonato. Stop. Le radici sono perciò interrate in ciò che è nudo e crudo oltre l’obiettivo, ma, tacitamente, ci sono anche delle ali, delle aperture quasi avanguardistiche, forse oniriche, slanci subacquei (il rumore delle onde è la prima cose che sentiamo) e osservazioni al laser verde nella notte tetra. Spaesati troviamo approdo nell’idea di spazio, Komljen ne fa una materia di studio, addirittura, a suo modo, di narrazione (i racconti di Lagos e Brasilia), spazio fisico, geografico, il vuoto dello spazio riempito dalle fiamme, dai colori sgargianti. Ogni film si occupa di spazio, Svi severni gradovi un po’ di più.

E poi bisogna dire di questo trattenutissimo rivolo sentimentale, nei commenti altrui si spinge sul fatto che l’arrivo del terzo incomodo (interpretato dal regista stesso) altera l’equilibrio fino a quel momento dominante. Il blitz dell’altro si mimetizza a tal punto nel tessuto filmico che si fa fatica a scorgerne l’ingresso al pari della destabilizzazione provocata, tuttavia qui Komljen appare relativamente interessato alle dinamiche umane riprese (non vi sono particolari scosse, ogni cosa continua a scorrere in un alienato limbo) quanto al processo artistico che si sviluppa tra l’estremo della finzione e quello della realtà. Un altro contest tra le due istanze? Probabile. Di sicuro l’entrata in scena del regista smuove teoricamente l’opera perché in quell’istante assistiamo ad una rottura dell’impianto concreto invaso dalla discreta presenza della crew intenta a riprendere lo svilupparsi (?) del film. Il cortocircuito non porta ad una detonazione autoriflessiva e non sembra nemmeno esserci delle fredda didattica da parte di Komljen, anzi a prescindere dal fattore concettuale permane tra le righe un tiepido calore che non ci stupiremmo se avesse una spinta biografica, probabilmente non solo riferita a Dane in quanto essere umano ma anche a Dane Komljen cittadino di una zona, i Balcani, che è un complesso puzzle di Storia ed identità che noi dall’altra parte dell’Adriatico conosciamo solo per sommi capi. All the Cities of the North mormora di questo e di altro ancora, un’energia inespressa lo fa galleggiare in un confine tra l’etereo ed il corporeo, tra Chavarría Gutiérrez e Castaing-Taylor & Paravel. Da vedere con attenzione.

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