lunedì 25 giugno 2018

Tokyo Vampire Hotel

Non nuovo a sortite nel campo seriale (la più recente è Minna! Esupâ dayo! [2013] che diede poi i natali al compendio The Virgin Psychics, 2015), sono anni ormai che Sono, a parte alcuni rari casi, tende con una sua coerenza ad aprirsi al pubblico meno esigente e quindi sembra chiaro a chi scrive che il formato in oggetto è ideale per incrementare una certa fidelizzazione degli spettatori che, magari, non conoscevano il suo cinema. Ma per chi invece sa a menadito pregi e difetti del pazzo giapponese, Tokyo Vampire Hotel (2017) rappresenta l’esatta sintesi degli ultimi tempi: qualche spunto interessante e tanti, davvero tanti capitomboli che mettono a dura prova la voglia di proseguire la visione. Di queste dieci puntate (nove se si considera l’ottava divisa in due parti) ho preso un A4 di appunti e rileggendoli le note che potremmo considerare positive sono talmente poche da poter essere così snocciolate:

- non si sa perché ma la questione dei compleanni imminenti è un fatto a cui Sono è ricorso spesso da Keiko desu kedo (1997) in poi. Vantaggi nell’economia globale? Non pervenuti. Però c’è un senso di piacevole continuità autoriale

- nel solito ping-pong tra cose ammirabili e altre al limite se non oltre della vedibilità, Sono sa ancora piazzare qualche colpo di livello. La carneficina del primo episodio pare superiore alle (troppe) che seguiranno e non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno tirasse in ballo Tarantino. Altri guizzi estetici si annidano in anfratti filmici di contorno alla traccia principale, si guardi l’orgia sanguinolenta tra gli esseri che vivono dietro la membrana (è qualcosa equivalente alle bizzarrie di We Are the Flesh, 2017) o in piccoli preziosismi come ad esempio la cromatura degli interni alberghieri (presa pari pari dalle geometrie di Antiporno, 2016) che in talune scene mostra un pavimento con i colori della bandiera rumena (al pari della sigla animata di apertura) 
 
- tra caotici parapiglia e composti narrativi da cartoon, emerge forse qualche timido dardeggiamento alla società nipponica. Niente che faccia spellare le mani dagli applausi, sia chiaro, però la continua sostituzione dei genitori di Manami (Noriko’s Dinner Table [2005]?), il buffo accoppiamento tra uomini e donne e l’idea di costruire una relazione coatta in luogo protetto come l’hotel, permettono non dico una definita lettura oltre l’immagine ma perlomeno una parvenza di essa. In passato Sono aveva letteralmente violentato il concetto di famiglia, adesso ci dobbiamo accontentare di qualche timida stilettata in punta di fioretto

I tre argomenti appena menzionati devono fronteggiare una serie di brutture pressoché impossibili da arginare. Per il mio modo di vedere l’aspetto che realmente infastidisce è che, porca miseria, per l’ennesima volta siamo qui a raccontare di una guerriglia tra bande rivali. I vampiri, che lo si sappia, non c’entrano niente. Se si prendessero degli spezzoni di Tokyo Tribe (2014) o Shinjuku Swan (2015) per accostarli a quelli di Tokyo Vampire Hotel ecco che si avrebbe una perfetta sovrapponibilità: alla base permane un banale pretesto (chi rappa meglio, chi procaccia più prostitute, chi si accaparra la prescelta) e poi è solo grassa baraonda tra tizi che se le danno per un tot di minuti dove si metterà anche in evidenza la bravura di Sono e della sua esplosività artistica ma... sai che noia? Tanto per dire: il settimo episodio comincia con un massacro lungo un quarto d’ora, una pioggia di cervella spappolate e decapitazioni che potrebbe esaltare al massimo qualche imberbe ragazzino. Ergo: botte da orbi a manetta e stop. L’origine dell’attenzione di Sono verso le faide tra gruppi opposti si colloca in Bad Film (2012), un’opera XL sgraziata e imperfetta che diceva tanto in materia e di cui non avremmo voluto visionare nessun epigono.

Un altro dato scoraggiante già indicato nei precedenti commenti e che qui trova desolante conferma è un clamoroso abbassamento di quegli standard qualitativi che dovrebbero essere sottintesi nel cinema odierno. Prendiamo solo che la CGI illustrante l’allineamento a croce dei pianeti o la porta dell’hotel che si apre su delle fiamme in 8-bit, non ho altro modo di definire ciò se non con imbarazzante, totalmente imbarazzante. E la Madre della mansione? Un ridicolo pupazzo che fa sembrare quelli di Love & Peace (2015) delle creazioni di Rambaldi? E l’improbabile cricca di vampiri rumeni con il capo capelluto che si fregia di un comico amplesso sulla ruota panoramica? No, è troppo, talmente troppo che a ’sto punto dovremmo forse ricalibrare il taglio critico, magari mi sbaglio ma l’impressione è che Sono abbia sconfinato nel trash, nella consapevole imitazione di modelli più alti. Da tale angolazione allora tutto acquista un senso diverso, si spoglia di velleità superiori per mostrare senza alcun freno a cosa tende: un fumettone in movimento di serie Z.

Sicché questo manga popolato dal solito contingente di attori in fibrillazione sononiana ha anche una trama che si articola tra il Giappone e la Romania in cui l’ufficio complicazioni affari semplici a cui Sono deve essersi appoggiato in fase di scrittura fa di tutto per contorcere gli avvenimenti creando un pasticcio confusionario che incamera una spropositata cifra di personaggi dall’insignificante spessore. Che non sia troppo saldo l’impianto narrativo ce lo suggerisce un finale in cui la storia arranca un po’ alla cieca, nell’ottava puntata avviene il salto temporale di quindici anni in cui dal nulla si introducono nuove figure che mai avevamo conosciuto (il cuoco e la bambina nata lì), delegittimando la centralità di Manami (mi è sfuggito o non viene spiegato perché perde la memoria?) e di conseguenza dell’ambaradan a lei riguardante in favore di altre superflue tortuosità su cui tenderei a soprassedere.

Scontato sottolineare che l’omonimo condensato presentato in qualche Festival del globo terracqueo non avrà mai e poi mai il mio sguardo. Né il mio tempo.

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