mercoledì 20 giugno 2018

Fresh Air

La proiezione di Friss levegő (2006) congiunta a quella di Adrienn Pál (2010) delinea una vera e propria strada registica che la Kocsis non disdegna di percorrere attraverso stili e temi strettamente correlati. Nel vedere il film d’esordio, anch’esso presentato a Cannes, osserviamo l’incubazione di una solitudine essenzialmente casalinga laddove l’abitazione diventa una prigione soffocante (Angéla sempre in bilico sulla finestra), un acquario che è il diorama di un isolamento ben più grande, forse congenito (l’apertura sul ballo di gruppo, un modo per conoscere qualcun altro…), nonché luogo dove detonano i legami famigliari. Adrienn Pál, in realtà, virerà poi su una traiettoria più complessa e, va detto, più soddisfacente dal nostro punto di vista, resta il fatto che in Fresh Air sono rintracciabili similari presupposti che, una volta constatati, ci accompagnano nel centro pregnante: in mezzo c’è una donna, bifronte, un essere madre-figlia in perenne lotta interiore, Viola vuole un uomo senza riuscire a trovarlo, Angéla ne trova uno senza volerlo, il risultato è un continuo protendere ad una dimensione purtroppo per loro emarginante che la regista ungherese, coadiuvata da quello che dovrebbe essere il suo marito italiano, Andrea Roberti, gestisce con raffinatezza e ironico garbo.

Tenendo bene a mente che un film così non potrà mai sconvolgere la sensibilità del sottoscritto e presumo nemmeno la vostra, nello scorrere tra i continui giri a vuoto beffardamente orchestrati, su tutti il tentativo di fuga di Angéla, nato, fra l’altro, dall’unico spiraglio di visione-sul-mondo fornito dalle VHS de La piovra (Michele Placido è la star appesa in cameretta), che inscena un fallimento quasi circolare, come se la gabbia-casa fosse la cella dove è inevitabile il ritorno, Kocsis & Roberti arrivano ad una chiusa che potrebbe essere letta come segue: la battaglia della vita è meno dura venendosi incontro, sicché l’episodio dell’aggressione ai danni della mamma funge da conciliazione, però, e mi pare sia un però che pesa, non scoppia un roseo idillio tra le due, anzi con la sostituzione della ragazza sul posto di lavoro qualcosa di molto amaro si propaga nel palato. La scena è questa: una teenager piena di sogni che vestita dell’armatura materna (una vestaglia rossa, dove il rosso è il solo colore indossato dal genitore) si cala nella latrina della società, non c’è aria fresca, se non quella posticcia delle bombolette spray, e l’interessante inquadratura finale, un lento carrello all’indietro di fliegaufiana memoria (Dealer [2004], ma molto in miniatura eh…), non trasmette di sicuro sensazioni positive, quel piccolo cesso, infatti, appare alla fine come lo sgabuzzino di uno sterminato universo nero.

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