Avevamo lasciato Víctor
Vázquez impegnato nei suoi strani allenamenti da torero ne El brau blau (2008) e lo ritroviamo adesso ne La vida sublime
(2010), diverso ma chiaramente identico a ciò che era nel film
precedente, ed una tale sovrimpressione ruolistica non può
che creare un ponte tra le due opere di Daniel V. Villamediana. Si
procede all’insegna della continuità dunque, sebbene sia comunque
consigliabile andarci cauti: la pellicola del 2010 segna un tracciato
divergente nei confronti di quella del 2008, Villamediana abbandona
l’astrazione e l’indeterminatezza, sia geografiche (perché prima
eravamo in un luogo indefinito vicino a Barcellona, ora le location
sono al contrario un dato essenziale per la storia) che razionali
(‘sta volta l’agire del protagonista è di più agile lettura),
preferendo imbastire una ricerca famigliare che, come nella migliore
tradizione, è una ricerca di se stessi. Attenzione che lo “stile”
è sempre altro e il regista nativo di Valladolid si impegna
parecchio a fornire un tocco autoriale alla sua creatura, “autoriale”
vuol dire tutto e niente, concordo, si sappia solo che la linea di
demarcazione tra la virtuosità e l’insolenza artistica è un filo
sospeso sui cui Villamediana passeggia non privo di alcune
difficoltà. Comunque sia tutta la parte iniziale ambientata prima
nel nord della Spagna e poi a Siviglia ha dei risvolti interessanti
perché rimanendo sempre in bilico tra realtà e finzione si riesce
ad estrapolare delle componenti narrative anche senza una messa in
scena capillare. Nel dialogo si forgia una storia, così come le
informazioni necessarie (ma anche superflue: il monologo
sull’anarchia) che sgorgano dalle opinioni degli interlocutori o dai
ricordi dell’anziana nonna.
Vi sono perciò svariate
fonti a cui abbeverarsi per tentare un’ipotetica quadratura del
cerchio, forse, a prescindere da qualunque sforzo interpretativo, per
comprendere appieno La vida sublime bisognerebbe conoscere la
Spagna in modo più approfondito perché il film si poggia su un
ventaglio di tradizioni del Paese. Così Villamediana si trasforma in
un Cicerone che tramite l’errabondare del ragazzo e il suo
rapportarsi con gli altri illustra idee e opinioni che in un modo o
nell’altro hanno a che fare con la cultura e la società spagnola. Allora, se c’è una prima porzione ci sarà anche la sua
prosecuzione che come accadeva nelle produzioni di altri esimi
professionisti come Miguel Gomes e Weerasethakul
(Blissfully Yours
[2002] ha un punto in comune con La vida sublime,
a voi il piacere della scoperta) si attua per mezzo di un cinema che
nel primo tempo ha una faccia mentre nel secondo un’altra. Oddio,
qua non siamo affatto al cospetto di un taglio così netto perché il
blocco di Cadice segue una pista similare a quanto c’è stato
prima, è però più marcato un allontanamento dalla logicità che ci
fa riavvicinare bruscamente a El brau blau:
quasi dieci minuti di ripresa frontale con Víctor che si
ingozza di sardine, sempre Víctor che fa a pugni con l’aria sugli
scogli o che canta con un gallo sottobraccio, e a parte lo scambio di
battute con l’ex torero, la piega che il film prende nel finale si
fa ancora più surreale e chiusa, il messaggio potrebbe essere: il
nipote seguendo le tracce del nonno arriva a prenderne le parti. La
risposta annessa sarebbe: e quindi? Ad un presupposto stuzzicante,
ossia quello di ripercorrere la strada del proprio nonno ricostruendo
una memoria, anche e soprattutto la memoria di una nazione attraverso le
voci dei suoi abitanti, corrisponde una deriva eccentrica che non si
equilibra bene con il resto. Tuttavia, a prescindere delle suddette
osservazioni, l’idea di cinema di Villamediana vale un
approfondimento.
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