Siamo nel
1835, in Argentina, durante un periodo che sullo schermo viene
indicato di anarchia e di peste, però, ed è un però che in termini
valutativi pesa parecchio, è come se fossimo altrove, anzi è come
se fossimo dovunque, ubiquamente, questo avviene perché El
Movimiento (2015) si autoastrae
dal proprio contesto temporale preferendo vagabondeggiare in peripli
dove il mare è stato risucchiato dalle secche crepe della pampa, è,
a mio modo di vedere, un film davvero interessante che sa coniugare
due visioni artistiche contemporanee, quella di Lisandro Alonso (c’è,
e non solo, la location di Jauja,
2014) e quella di Albert Serra (per il suo sottrarsi alla Storia pur
partendo da essa), ma che possiede una personalità piuttosto
forte dove le diverse sostanze che compongono l’opera trovano un’unità difficile da definire perché difficile, senza alcuna
accezione negativa, è seguire l’andamento filmico, e di ciò va
reso onore al regista Benjamín Naishtat che non ci mette molto a
guadagnarsi la nostra attenzione, l’incipit, infatti, è incisivo
e squaderna una situazione che pur non essendo troppo aderente a
quanto succederà dopo riesce a dettare fermamente la misura della
visione: vi è della sporcizia (riprese epidermiche, strette,
soffocanti) e della purezza (il bianco e nero, quando ben utilizzato,
illumina più dei colori), si è, insomma, divisi da opposte
impressioni che derivano da un variegato ventaglio di opzioni
tecniche, sì, El Movimiento
è indubbiamente un film in cui si registra tutta la manodopera che sta dietro, però non possiamo lamentarci, quando si annota una
discreta intraprendenza - soprattutto strutturale - allora ben
vengano le intensificazioni del caso.
Si
accennava ad un diffusa difficoltà nello stare dietro alla
narrazione, a parte che non dovrebbe mai esserci alcuna necessità di
seguire un percorso logico in certe tipologie di cinema, Naishtat
posa comunque nel suo labirinto di immagini sottilmente diaboliche un
filo d’Arianna che parrebbe condurci più lontano di quanto
potremmo pensare. La frammentarietà degli eventi, corroborata in
alcuni frangenti da un montaggio a singhiozzo crivellato da stacchi
sul nero, si riconduce ad un macro-evento, o forse sarebbe meglio
dire ad un macro-tema, che è quello della propaganda, dell’indottrinamento, del reclutamento, bisogna filtrare gli accenti
stravaganti e gli slalom autoriali, bypassare l’ingannevole
stagnazione dei fatti e osservare il tutto con una lente esegetica
che si apre al generale, solo così si potrà vedere nel comportamento del
carismatico capo (interpretato da un fenomenale Pablo Cedrón, visto
secoli fa in The Aura,
2005) un modo di fare ascrivibile a quello di altre “guide” che
si vendono come salvatori dell’umanità: la violenza è il primo
elemento per svettare e imporsi (e l’omicidio dell’anziano, nelle
tenebre della casa, merita tanto), la dialettica è indispensabile
per il proselitismo, e, ovviamente, il male sono loro, noi siamo il
bene, ed anche il flirtare con istanze spirituali, pagane e non (la
parentesi con lo sciamano è la controparte di quella col prete),
rientra nell’immaginario popolare che si ha di un leader.
Inaspettatamente il regista ritrae una figura prettamente politica
che non ha uno specifico legame con l’epoca di riferimento, può
essere ieri, oggi e domani in qualunque posto del globo terracqueo, e
basta ascoltare le dichiarazioni degli avventori dopo il magnifico
comizio scespiriano del finale per trovarci di fronte a delle
interviste televisive fatte a gente comune ma traslate in una dimensione
fittizia e quasi anacronistica. L’ultima lode la spendo sul
sonoro, distorto, elettronico, industriale, lontanissimo
dall’apparente clima western ma prospiciente all’abisso che si
distende poco più in là, a Lynch piacerebbe assai per accompagnare
l’entrata in scena di qualche suo personaggio mefistofelico.
Nessun commento:
Posta un commento