Amenità rumena: non
chiediamo sempre un trattamento alla Pedro Costa o alla Sylvain
George in materia di immi/emigrazione (in realtà lo chiediamo
eccome, dentro di noi sappiamo che vorremmo vedere il loro cinema ad
oltranza), ma, suvvia!, questo Calea Dunarii
(2013) firmato da Sabin Dorohoi bazzica ahilui i lidi di un Silent River (2011) qualunque,
quindi: necessità di una storiella da raccontare e lisciamento
estetico, ché le rocce innevate a picco sul Danubio son belle e
suggestive in quanto tali, ma di un tocco registico non v’è
traccia. Dorohoi focalizzandosi sulla frase che chiude il corto e che
fa anche da tagline, “tre milioni di romeni lavorano all’estero.
I loro bambini vengono lasciati a casa”, imbastisce un lavoro molto
troppo ordinario che punta a fare leva sull’innocenza del
figlioletto sempre in attesa del ritorno genitoriale da Vienna. Ben
appunto, la figura del bimbo, contornata da personaggetti posizionati
ad hoc (l’amichetta del cuore, il buon nonnino), pur facendosi
amabile fulcro narrativo non riesce comunque a mascherare del tutto
un’assenza di vera ricerca e di concreta voglia nel tematizzare un
argomento che è effettivamente atroce nonché traumatizzante
per tutti questi piccoli “orfani” rumeni, semplicemente Dorohoi
fa quello che è un po’ la rovina del cinema: si ferma alla patina,
come se la superficie della confezione pulita e ordinata possa essere
ritenuta il punto di massima profondità concettuale.
Al
solito, e purtroppo chiedo scusa per l’ennesima ripetizione, è la
letteralità degli eventi filmici ad ammorbare la visione,
l’ostensione della spiegazione è un implacabile stantuffo che
livella il prodotto e che prosciuga ogni rivolo interpretativo. Su un
topic similare si è espresso anni prima l’ungherese Bálint
Kenyeres con Before Dawn (2005), un titolo che ben esemplifica
la percorribilità di una direzione opposta a quella scelta da
Dorohoi e da un’infinità di
suoi colleghi, perché è sufficiente un muto primo piano a
spalancare le porte ad un ipotetico flusso informativo ben più
convincente delle didascalie dell’arte sedata. Il finale, peraltro
identico a quello di Georgica
(1998), non lascia indifferenti, ma solo perché per la prima volta
il regista spegne il pilota automatico e abbandona la sua creatura
nelle spire dell’indeterminatezza, miniatura di quelle
volute che si fanno instabile approdo per lo spettatore affamato di
Visioni.
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