L’enigma mi avvolgeva
prima della visione di Georgica (1998): Sulev Keedus, un
totale sconosciuto, il cinema a cui il regista si riconduce, quello
estone, che ad esclusione delle più recenti produzioni di Veiko
Õunpuu era un mondo ugualmente ignoto, le Georgiche
di Virgilio, non pervenute dall’archivio della memoria scolastica,
e a fine visione l’enigma rimane, ma è un mistero diverso, più
denso del banale nozionismo: che cosa abbiamo visto? Credo
innanzitutto che all’opera di Keedus qualcosa manchi, e che
accidenti sia “qualcosa” non saprei dire, magari uno sguardo
davvero meditativo, una confezione di più alto livello estetico,
perché sebbene un’estetica Georgica
ce l’abbia, anche piuttosto definita, non è abbastanza da fargli
compiere quel salto nell’estatico, nello spazio madreperlaceo della
contemplazione. Dal qualcosa che manca ad un qualcosa che c’è e
che è altrettanto complicato da identificare, con un occhio al
cinema sovietico ed un altro a quello europeo della brace arde ed
erutta ogni tanto, sbuffi lavici che accendono e quasi incendiano:
l’atmosfera sospesa, l’impressione di un-luogo-a-parte,
l’atemporalità, la surrealtà, quanti elementi che riempiono la
cavità-spettatore, non del tutto comunque, ripeto: la non piena
sazietà, è lì che si giunge.
Concentrarsi sui due
fuochi principali: il ragazzino (che non reciterà mai più) ed il
vecchio monaco (attore già al tempo di lungo corso, lo ritroveremo
in The Temptation of St. Tony, 2009), è chiaro (probabilmente
l’unico aspetto su cui c’è da scommettere) che si tratta di due
figure sovrapponibili, come due disegni diversi ma identici
nell’anima, entrambi sono tormentati dal passato e Keedus non
lesina strappi ricorsivi di pura analessi, quadri seppiati che fanno
defluire il passato nella narrazione (e molto belli perché più
“estranei”, più laterali, i flash africani) e che com-baciano
l’umanità del duo confermando il sentore che emerge durante la
proiezione, al capolinea esistenziale di uno corrisponde la genesi
dell’altro (finalmente la voce esce), con la vita che diventa
davvero un rebus: “mamma non so dove andrò”: una barchetta fra la
nebbia.
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