Püha Tõnu kiusamine (2009) è un film di folgorante bellezza.
Basta poco (un bizzarro corteo funebre di herzoghiana memoria [1]) per capire che il regista estone classe ’72 Veiko Õunpuu ha talento da vendere. Come il suo collega e quasi connazionale Sharunas Bartas, egli propone una carrellata di esseri umani che difficilmente sembrano appartenere a tale categoria. Ma la tipica malinconia bartassiana qui viene sostituita da un surrealismo che incamera sequenza dopo sequenza misteriosi interrogativi a cui non è possibile dare risposta. Vieppiù che la regia di Õunpuu risulta incredibilmente diversificata, per cui l’immagine passa da una sospensione piano-sequenziale degna del miglior Tarr a rabbiose accelerazioni estetiche che mozzano il fiato.
Ciò comporta un disorientamento tangibile, tuttavia la bussola per muoverci adeguatamente viene fornita fin da subito.
Eggià perché la chiave di lettura attraverso la quale comprendere l’opera risiede nelle parole di Dante sovraimpresse sullo schermo prima che tutto abbia inizio. Il primo verso della Divina Commedia delinea il quadro diegetico poiché abbiamo Tony, un uomo sulla quarantina, ricco, con un bel lavoro e una bella moglie, che si ritrova in una selva fatta di tenebra dove decine e decine di mani mozzate galleggiano sulla superficie paludosa. L’Inferno inizia da qui e senza cantiche o gironi la popolazione che lo abita non ha nulla da invidiare a quella narrata dal Sommo Poeta. Il problema, per il protagonista, è che i simili a cui va incontro non pagano nessun tipo di contrappasso ma anzi perpetrano il male imperterriti. Gli esempi si susseguono a ritmo incessante attraverso una progressione onirica di elevatissima densità; basta prendere il tizio sopravvissuto all’incidente che invece di invocare aiuto chiede se può sedersi nella lussuosa macchina di Tony. Questo episodio apre la strada ad altri di simile fattura dove la tesi del regista è quella di inscenare una sorta di martirio in cui il personaggio principale è l’UNICO a farsi delle domande di tipo etico (“cos’è la bontà?”), mentre il resto del mondo si interessa a tutt’altro: la polizia di frontiera, mai così estrema, adotta metodi poco ortodossi durante le interrogazioni, gli amici di Tony parlano di scambi di coppia e rabbrividiscono (giustamente, ve lo assicuro) alla visione di un barbone oltre la finestra, il proprietario della fabbrica licenzia i dipendenti per una piccolissima percentuale di difetto.
In questo percorso Tony non è solo. Egli trova in un cane, da lui ucciso e forse resuscitato per il suo pentimento, un Virgilio come guida e una Beatrice di bianco vestita come amore vero. Ma la debole presa di questi due personaggi rispetto all’angoscioso contesto che stritola ogni cosa fa sì che l’accompagnamento diventi una rincorsa, e così quando assistiamo al magnifico dialogo fra il sacerdote luciferino e il Nostro in cui si palesa l’assoluta latitanza di una fede, Tony si inoltra in un delirante sottomondo che lo porterà al totale smarrimento di sé.
Noterete che al pari, per esempio, di 4 (2005) l’esegesi del film si è trasformata pian pianino in una semplice descrizione. Questo perché al di là della folgorante bellezza di cui prima, la pellicola è seriamente tortuosa, e di conseguenza lo è anche la sua interpretazione. Il cervello mi dice che l’impronta arty celi più del dovuto alcuni significati o mascheri l’assenza di essi, eppure la pancia mi urla forte che The Temptation of St. Tony è una grande opera pregna di Cinema e in qualche modo di attualità perché, ahimè, alla fine nessuno esce a riveder le stelle.
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[1] Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970)
Basta poco (un bizzarro corteo funebre di herzoghiana memoria [1]) per capire che il regista estone classe ’72 Veiko Õunpuu ha talento da vendere. Come il suo collega e quasi connazionale Sharunas Bartas, egli propone una carrellata di esseri umani che difficilmente sembrano appartenere a tale categoria. Ma la tipica malinconia bartassiana qui viene sostituita da un surrealismo che incamera sequenza dopo sequenza misteriosi interrogativi a cui non è possibile dare risposta. Vieppiù che la regia di Õunpuu risulta incredibilmente diversificata, per cui l’immagine passa da una sospensione piano-sequenziale degna del miglior Tarr a rabbiose accelerazioni estetiche che mozzano il fiato.
Ciò comporta un disorientamento tangibile, tuttavia la bussola per muoverci adeguatamente viene fornita fin da subito.
Eggià perché la chiave di lettura attraverso la quale comprendere l’opera risiede nelle parole di Dante sovraimpresse sullo schermo prima che tutto abbia inizio. Il primo verso della Divina Commedia delinea il quadro diegetico poiché abbiamo Tony, un uomo sulla quarantina, ricco, con un bel lavoro e una bella moglie, che si ritrova in una selva fatta di tenebra dove decine e decine di mani mozzate galleggiano sulla superficie paludosa. L’Inferno inizia da qui e senza cantiche o gironi la popolazione che lo abita non ha nulla da invidiare a quella narrata dal Sommo Poeta. Il problema, per il protagonista, è che i simili a cui va incontro non pagano nessun tipo di contrappasso ma anzi perpetrano il male imperterriti. Gli esempi si susseguono a ritmo incessante attraverso una progressione onirica di elevatissima densità; basta prendere il tizio sopravvissuto all’incidente che invece di invocare aiuto chiede se può sedersi nella lussuosa macchina di Tony. Questo episodio apre la strada ad altri di simile fattura dove la tesi del regista è quella di inscenare una sorta di martirio in cui il personaggio principale è l’UNICO a farsi delle domande di tipo etico (“cos’è la bontà?”), mentre il resto del mondo si interessa a tutt’altro: la polizia di frontiera, mai così estrema, adotta metodi poco ortodossi durante le interrogazioni, gli amici di Tony parlano di scambi di coppia e rabbrividiscono (giustamente, ve lo assicuro) alla visione di un barbone oltre la finestra, il proprietario della fabbrica licenzia i dipendenti per una piccolissima percentuale di difetto.
In questo percorso Tony non è solo. Egli trova in un cane, da lui ucciso e forse resuscitato per il suo pentimento, un Virgilio come guida e una Beatrice di bianco vestita come amore vero. Ma la debole presa di questi due personaggi rispetto all’angoscioso contesto che stritola ogni cosa fa sì che l’accompagnamento diventi una rincorsa, e così quando assistiamo al magnifico dialogo fra il sacerdote luciferino e il Nostro in cui si palesa l’assoluta latitanza di una fede, Tony si inoltra in un delirante sottomondo che lo porterà al totale smarrimento di sé.
Noterete che al pari, per esempio, di 4 (2005) l’esegesi del film si è trasformata pian pianino in una semplice descrizione. Questo perché al di là della folgorante bellezza di cui prima, la pellicola è seriamente tortuosa, e di conseguenza lo è anche la sua interpretazione. Il cervello mi dice che l’impronta arty celi più del dovuto alcuni significati o mascheri l’assenza di essi, eppure la pancia mi urla forte che The Temptation of St. Tony è una grande opera pregna di Cinema e in qualche modo di attualità perché, ahimè, alla fine nessuno esce a riveder le stelle.
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[1] Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970)
dove lo trovo?
RispondiEliminacaspita se non è interessante..! ma i sub in ita non esistono .-.
RispondiEliminaE il grande Umberto (alias waYne) ha mantenuto la promessa, ecco i sub ita: http://www.asianworld.it/forum/index.php?showtopic=13992
RispondiEliminaBuona visione a tutti!
Sono molto dispiaciuta. Non riesco a vederli
EliminaNon dispiacerti troppo, basta iscriverti al portale e vedrai ogni cosa.
EliminaAbbacinanti visioni di un bianco nero spalmato di luce che mi accompagnano ancora ad ogni chiusura di palpebre.deve aver trovato la chiave giusta per incunearsi in qualche viscere nel profondo questo splendido dante in panni surreali e a tratti lynchiani. lo lascio sedimentare, ma so già che urge una seconda visione.la colonna sonora poi: perfetta litania in ogni capitolo/ girone della pellicola.i dialoghi sopraffini, molto più penetrabili delle stesse scene e questo ci dona uno scorcio di senso nell'apparente non sense delle immagini oniriche e fatali, che accogliamo volentieri come sponda per non impaludarci tra mani mozzate e un sottobosco umano grottesco. mi ricorderò di esplorare meglio anche il cinema estone a questo punto,se hai altri titoli sui quali dirottarmi ( magari delle stesse tinte cromatiche)sono pronta a scorrere torrenti. e ringraziarti.
RispondiEliminaL'obiettivo che umilmente mi pongo nel portare avanti questo blog è quello di far conoscere un cinema sommerso che meriterebbe ben altri palcoscenici, a volte mi va male, a volte benissimo (come in questo caso) e quando riesco ad incuriosire chi mi legge spingendolo alla visione e a riscontrare che ha provato ciò che io stesso ho provato (d'altronde mi ritrovo perfettamente nel tuo puntuale commento che mi ha riproiettato in testa il film), allora mi dico che la fatica (perché lo è a volte) della scrittura ha un minimo di senso.
RispondiEliminaNon sono per nulla ferrato sul cinema estone, ti posso dire al massimo di recuperare le due opere precedenti di questo regista che non sono male ma non toccano le vette di Tony, e se riesci di buttare uno sguardo su http://pensieriframmentati.blogspot.com/2012/11/magnus.html che a mio avviso è un gioiellino.
magnus è già sul comodino in attesa insieme a tutte le belle pellicole che mi fai scoprire.continua a scrivere, per chi ha orecchie da poter dettare il racconto e per omaggio al sommerso e fertile sottobosco di felci in celluloide.che bella vertigine sapere che stasera mi aspetta una magistrale noomi rapace in daisy diamond,a intuito, ma so che non mi deluderà.
RispondiEliminaRitengo Daisy Diamond uno dei film più potenti, nonché uno dei più devastanti, mai visti dal sottoscritto.
RispondiEliminaSo che non hai tempo per certe questioni, ma, visto che scrivi che "la chiave di lettura attraverso la quale comprendere l’opera risiede nelle parole di Dante sovraimpresse sullo schermo prima che tutto abbia inizio" e, subito dopo, che "la pellicola è seriamente tortuosa, e di conseguenza lo è anche la sua interpretazione", ti vorrei far notare che la domanda "cos'è la bontà" è una domanda eminentemente diegetica, quindi non classificabile come chiave di lettura: secondo me, la domanda va traslata su un piano extra-diegetico, quindi non più che cos'è la bontà ma dov'è, qual è la bontà. Tony, hai ragione, trapassa un mondo malvagio, e si suppone lui sia buono, almeno la sua etica è quella (com'è la nostra); quello che, però, Õunpuu vuole - sempre secondo me - portare in superficie è il divario tra essere e sembrare: okay, Tony è buono e (quasi) tutti gli altri sono malvagi, ma, data l'inferiorità numerica, non è forse più probabile il contrario?
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