È il compleanno di Steve, ma la moglie Alexandra invece di preparargli una festicciola a sorpresa ha in serbo ben altri progetti.
Una casa da focolare patinato stile “famiglia dei biscotti” diventa un bunker: tapparelle di acciaio impenetrabili, subdola penombra, telefono staccato, isolamento. Il piano di Alexandra (e non provate a chiamarla Alex) è quello di gettare in un incubo, che lei stessa ha vissuto fino a quel momento, il marito perfettamente imperfetto: flessioni al mattino, una sigaretta ogni tanto, qualche scappatella, anche. E Rolf de Heer si adegua al mood della donna essendo egli un buon tessitore d’atmosfere – la prima mezz’ora di Bad Boy Bubby (1993) è lì a ricordarcelo –, e avendo avuto in carriera la voglia di sperimentare, e chi sperimenta spesso (/sempre) rischia qualcosa.
L’assunto da cui parte il regista australiano è usurato, perché di crisi coniugali ne abbiamo viste abbastanza, è lo sviluppo e la metodologia con cui la suddetta crisi viene esplicitata a convincere del fatto che se l’autore non è riuscito in pieno nel suo intento, almeno si può dire che ci abbia provato.
Come detto l’atmosfera è convincente e nei limiti anche avvincente se pensiamo che buona parte del film si svolge con il protagonista seduto su una poltrona. Al di là di qualche malizia dell’autore come quella di riprendere uno Steve indeciso se schiacciare play sul telecomando (e in buona parte funziona perché saremmo noi stessi tentati di utilizzare un forward immaginario per sentire cosa ha da dire Alexandra), è chiaro che a livello concettuale la pellicola ha trovate ben più che interessanti, basti pensare, appunto, alla casa sigillata in cui il marito si ritrova rincasando che è sinonimo della relazione vissuta come un soffocamento da parte della moglie, ed è evidente che la riflessione sul mezzo cinema pone tale arte visiva come terreno di incontro/scontro fra un uomo e una donna che fino a quel momento avevano vissuto il matrimonio in apparente serenità; Steve, seduto di fronte al video, diventa a tutti gli effetti uno spettatore come lo siamo noi, e nell’atto di vedere riesce a percepire per la prima volta tutto il malessere di sua moglie. Ovviamente il sottofondo quasi sarcastico risiede nel fatto che è solo attraverso uno schermo che un marito riesca per la prima volta a sentire sua moglie.
Il momento apicale è la mano che sbuca dal basso e va a palpare il seno di Alexandra, poi si inizia a scivolare.
Passi ancora il parallelo sulla vita coniugale dove lei è ridotta a corpo da penetrare e allora la vediamo ripresa in tale atto dal vicino di casa, tuttavia in quello che si presenta a conti fatti come un vero e proprio piano vendicativo iniziano a presentarsi i primi buchi (il)logici, vedasi l’improvvisa defezione del telecomando giustificata con “è uno dei misteri della vita”, oppure Steve che rompe un muro a forza di calci. Ma a parte le possibili falle su cui non amo soffermarmi in generale, è che con la delineazione dei due personaggi, come scrive Luca Baroncini (link), si assiste ad una riduttiva stereotipizzazione dei generi: il maschio è un ninfomane sempre attivo, la femmina un oggetto passivo delle sue voglie. Insomma, una rappresentazione che si fa presentazione fino al finale parecchio inverosimile con il malefico vicino che ha magicamente uno spicchio di cuore ancora d’oro.
Il cinefilo di bocca fina non apprezzerà granché, gli altri provino a darci uno sguardo, interesserà.
Una casa da focolare patinato stile “famiglia dei biscotti” diventa un bunker: tapparelle di acciaio impenetrabili, subdola penombra, telefono staccato, isolamento. Il piano di Alexandra (e non provate a chiamarla Alex) è quello di gettare in un incubo, che lei stessa ha vissuto fino a quel momento, il marito perfettamente imperfetto: flessioni al mattino, una sigaretta ogni tanto, qualche scappatella, anche. E Rolf de Heer si adegua al mood della donna essendo egli un buon tessitore d’atmosfere – la prima mezz’ora di Bad Boy Bubby (1993) è lì a ricordarcelo –, e avendo avuto in carriera la voglia di sperimentare, e chi sperimenta spesso (/sempre) rischia qualcosa.
L’assunto da cui parte il regista australiano è usurato, perché di crisi coniugali ne abbiamo viste abbastanza, è lo sviluppo e la metodologia con cui la suddetta crisi viene esplicitata a convincere del fatto che se l’autore non è riuscito in pieno nel suo intento, almeno si può dire che ci abbia provato.
Come detto l’atmosfera è convincente e nei limiti anche avvincente se pensiamo che buona parte del film si svolge con il protagonista seduto su una poltrona. Al di là di qualche malizia dell’autore come quella di riprendere uno Steve indeciso se schiacciare play sul telecomando (e in buona parte funziona perché saremmo noi stessi tentati di utilizzare un forward immaginario per sentire cosa ha da dire Alexandra), è chiaro che a livello concettuale la pellicola ha trovate ben più che interessanti, basti pensare, appunto, alla casa sigillata in cui il marito si ritrova rincasando che è sinonimo della relazione vissuta come un soffocamento da parte della moglie, ed è evidente che la riflessione sul mezzo cinema pone tale arte visiva come terreno di incontro/scontro fra un uomo e una donna che fino a quel momento avevano vissuto il matrimonio in apparente serenità; Steve, seduto di fronte al video, diventa a tutti gli effetti uno spettatore come lo siamo noi, e nell’atto di vedere riesce a percepire per la prima volta tutto il malessere di sua moglie. Ovviamente il sottofondo quasi sarcastico risiede nel fatto che è solo attraverso uno schermo che un marito riesca per la prima volta a sentire sua moglie.
Il momento apicale è la mano che sbuca dal basso e va a palpare il seno di Alexandra, poi si inizia a scivolare.
Passi ancora il parallelo sulla vita coniugale dove lei è ridotta a corpo da penetrare e allora la vediamo ripresa in tale atto dal vicino di casa, tuttavia in quello che si presenta a conti fatti come un vero e proprio piano vendicativo iniziano a presentarsi i primi buchi (il)logici, vedasi l’improvvisa defezione del telecomando giustificata con “è uno dei misteri della vita”, oppure Steve che rompe un muro a forza di calci. Ma a parte le possibili falle su cui non amo soffermarmi in generale, è che con la delineazione dei due personaggi, come scrive Luca Baroncini (link), si assiste ad una riduttiva stereotipizzazione dei generi: il maschio è un ninfomane sempre attivo, la femmina un oggetto passivo delle sue voglie. Insomma, una rappresentazione che si fa presentazione fino al finale parecchio inverosimile con il malefico vicino che ha magicamente uno spicchio di cuore ancora d’oro.
Il cinefilo di bocca fina non apprezzerà granché, gli altri provino a darci uno sguardo, interesserà.
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