venerdì 22 luglio 2011

Bedevilled

Ancora una volta siamo qui a parlare di un film proveniente dalla Corea del Sud.
Un’opera prima che porta la firma di Jang Chul-soo, regista classe ’74 e già assistente del maestro Kim Ki-duk ne La samaritana (2004).
Presentato a Cannes dello scorso anno, Bedevilled (2010) contiene molto – se non tutto – di quello che questo paese ci ha donato negli ultimi anni per quanto riguarda la settima arte.
Analizzando la trama risalta incisivamente la scelta di Jang, che conscio delle pellicole precedenti dei suoi connazionali, schiaccia l’acceleratore su una serie di ingiustizie, soprusi e malvagità da far impallidire anche un navigato fruitore del cinema made in Korea. Ma prima di fare questo il regista tesse abilmente una tela dai larghi confini che parte in un contesto urbano, Seul, nel quale predomina la violenza, e la violenza porta paura che a sua volta porta omertà. L’omertà è la benzina di questo film, ricordatevelo.
Posti questi paletti, la vacanza relax nell’isola di origine da parte della protagonista Hae-won poteva apparire come il classico staccare la spina da parte di una stressata donna di città. Ovviamente non sarà così poiché all’interno dell’isola vive una piccola comunità che in quanto ad inumanità non ha niente da invidiare alle bassezze metropolitane, anzi.

Racchiuso in due estremi così cari al cinema sudcoreano (lirismo & violenza, e qui il buon vecchio Kim è la fonte a cui abbeverarsi), il film decolla con il progressivo scoprimento della realtà isolana. Una realtà in cui l’eccesso è la regola, e nonostante suoni a tratti “impossibile” non è praticamente mai necessario far ricorso alla sospensione dell’incredulità. L’atmosfera realisticamente magica annovera un vecchio che mastica continuamente erba, un padre-non-padre che fa sesso con una prostituta a due passi dalla moglie e sul quale aleggia l’aria greve della pedofilia, la suddetta moglie che viene scopata da un commilitone del marito, la “zia” dell’isola che assomiglia più ad un despota che ad una contadina. L’eccesso è quindi di casa, ma fortunatamente non diventa mai di cattivo gusto, tanto che dopo il climax dell’infanticidio, inizia a concretizzarsi uno spostamento concettuale dell’opera che denuncia e riprende l’omertà iniziale (la panoramica con tutti gli abitanti dell’isola che coprono l’assassino di fronte al poliziotto è magistrale) per poi dare spazio a quel risentimento ormai vero e proprio habitué nel cinema orientale: la vendetta.

Ma prima di sbuffare sulla riproposizione di questa tematica, sappiate che l’utilizzo della vendetta da parte di Jang Chul-soo non è per niente gratuito, piuttosto si palesa come per poche altre pellicole del genere una naturale reazione all’immane torto subito dalla povera Bok-nam che si unisce ai tanti piccoli soprusi quotidiani mostrati e non mostrati nella storia.
Merito dunque dell’impalcatura narrativa che dipinge diabolicamente uno stuolo di esseri umani rientranti a fatica nella categoria, e tutta la loro malvagità non può che essere compensata da una violenza perlomeno equipollente.
Va da sé che dopo la splendida scena del sole, un’illuminazione, l’atto vendicativo trova completezza in una regia che asseconda la rabbia di Bok-nam. La quale da vera martire stile Dae-su di Oldboy (2003) risorge tra sangue e ferite che immortalano primi piani di sofferenza capaci di screpolare lo schermo. La rabbia è cieca, mentre l’occhio cinematografico ci vede benissimo e regala sequenze da urlo a nastro: decapitazioni e coltellate riprese con poderosa vigoria estetica, uso di armi non convenzionali (un flauto) come è quasi da tradizione, impeto iracondo, fino all’ultima inquadratura che non redime Hae-won ma appesantisce ancora di più la sua colpa.

Se con I Saw the Devil (2010) affermavo che si poteva essere giunti al canto del cigno di una realtà artistica spropositata, Bedevilled rimette in discussione tutto. Anche se la convinzione, e forse la speranza, è che da quelle parti non hanno mai smesso di fare ottimo cinema.

Divagazione.
Ad un certo punto si sentono le contadine dell’isola intonare un canto in cui viene ripetuta più volte la parola “arirang”. Non so quanto possa azzeccarci, ma il nuovo film-documentario di Kim Ki-duk si chiama proprio così: Arirang (2011).

5 commenti:

  1. non lo conosco e penso proprio che lo cercherò subito.la tua analisi del cinema coeano è perfetta...ciao

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  2. sarà difficile privarsene:)

    grazie
    e ciao

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  3. non ne avevo letto un granché bene, ma se dici che una visione la merita, segno immediatamente :)

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  4. Non aggiunge niente di nuovo ai revenge-movie coreani, se così si possono chiamare. Però lo fa con intrasigente classe, irruenza estetica, commedia nera e dramma (ir)reale. Tutto già detto, ma tutto detto benissimo.

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  5. Ah brazzy, già analisi è un parolone, con "perfetta" poi si esagera proprio!
    Ciao ;)

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