Il cinema di Chris Marker si conferma e si afferma con immane prepotenza una ricerca mnestica di costruzione e distruzione. L’autore francese non indaga la memoria, non ha pretese di onniscienza, piuttosto ne mette in evidenza la sua fallacia, l’insicurezza da essa derivante, e l’impossibilità di comprenderla appieno. Il cinema diventa veicolo, un mezzo. Autocitandomi mi viene da dire che se esso assume i connotati di una macchina del tempo ne La Jetèe (1962), dello spazio in Sans Soleil (1983), qui, pur possedendo le due caratteristiche precedente, si fa tramite della realtà virtuale applicata alla realtà vera.
Level Five (1997) è, infatti, un compromesso markeriano per rappresentare un evento del passato; la rivisitazione di una guerra non particolarmente presente nei libri di storia, la Battaglia di Okinawa, sulla quale pesano tremende ombre legate a migliaia di suicidi, diventa il pre-testo su una riflessione meta legata al testo filmico come luogo di ricordo. Il cinema è potenzialmente in grado di riedificare anche un evento storico di tale portata, eppure nemmeno la perfezione (meccanica) di un videogioco riesce a creare nuovamente quelle condizioni belliche (finché non ci sarà il “cinema olfattivo” non ci saranno film di guerra), forse perché creato dall’imperfezione umana o forse perché certi souvenir sono immersi nelle profondità del mare.
Accanto a questi richiami universali, accade, come nelle due opere precedenti ma qui con maggior insistenza, che delle vicende singolari, nel senso di una prossimità uno-a-uno, si intreccino reciprocamente. Così al pensiero di una terribile guerra quasi dimenticata, si affiancano i pensieri di Laura (Catherine Belkhodja) rivolti al compagno perduto che non deve essere dimenticato. Il set è minimale: lei, seduta, parla dritta in camera, la vicenda in questi frangenti acquista un tono strettamente confidenziale, che, come veniva detto in Sans Soleil, “non ha bisogno di dire tutto” poiché ciò che resta inespresso non trova posto nelle pieghe della memoria, bensì in quelle del cuore.
Level Five (1997) è, infatti, un compromesso markeriano per rappresentare un evento del passato; la rivisitazione di una guerra non particolarmente presente nei libri di storia, la Battaglia di Okinawa, sulla quale pesano tremende ombre legate a migliaia di suicidi, diventa il pre-testo su una riflessione meta legata al testo filmico come luogo di ricordo. Il cinema è potenzialmente in grado di riedificare anche un evento storico di tale portata, eppure nemmeno la perfezione (meccanica) di un videogioco riesce a creare nuovamente quelle condizioni belliche (finché non ci sarà il “cinema olfattivo” non ci saranno film di guerra), forse perché creato dall’imperfezione umana o forse perché certi souvenir sono immersi nelle profondità del mare.
Accanto a questi richiami universali, accade, come nelle due opere precedenti ma qui con maggior insistenza, che delle vicende singolari, nel senso di una prossimità uno-a-uno, si intreccino reciprocamente. Così al pensiero di una terribile guerra quasi dimenticata, si affiancano i pensieri di Laura (Catherine Belkhodja) rivolti al compagno perduto che non deve essere dimenticato. Il set è minimale: lei, seduta, parla dritta in camera, la vicenda in questi frangenti acquista un tono strettamente confidenziale, che, come veniva detto in Sans Soleil, “non ha bisogno di dire tutto” poiché ciò che resta inespresso non trova posto nelle pieghe della memoria, bensì in quelle del cuore.
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