Stordente déjà vu: Choi Min-sik che impugna un martello con feroce espressione. Qualcosa trema, dentro me…
L’ultimo film di Kim Jee-woon è forse (vista la parabola discendente, a mio avviso discutibile, che alcuni critici attribuiscono al cinema sudcoreano) il canto del cigno di una realtà artistica spropositata, gigantesca, oramai già stori(c)a; nell’ultima decade la Corea del Sud ha impresso a forza di poesia e di violenza un solco profondo nella contemporaneità cinematografica, i coreani non hanno inventato il cinema ma di certo vi hanno donato nuove sfaccettature aventi come substrato una sintesi (sublime) mica da poco: quella tra l’Immagine in grado di investire con immane violenza e/o toccante lirismo, e Significato che giustifica la crudeltà e/o l’armonia sfuggendo al compiacimento.È per questo motivo che I Saw the Devil (2010), come puntualmente riportato dalla recensione di Alessandro Baratti (link), è un’opera che cita senza indugi il corollario filmico caratterizzante buona parte della settima arte in Corea del passato recente. Il canale dialogico è spalancato, almeno per ciò che il sottoscritto ha potuto vedere, soprattutto nei confronti del collega Park Chan-wook, poiché questa pellicola, oltre ad annoverare nel proprio cast il già citato (e sempre immenso) Choi, poggia le fondamenta su quel rancore umano, quel ri-sentimento tanto caro a Park: la vendetta.
Proprio il folle maniaco protagonista di questo film cuce un concreto legame con i due personaggi interpretati da Min-sik nell’imprescindibile Trilogia. Al pari di Dae-su in Oldboy (2003) e di Mr. Baek in Lady vendetta (2005), questo martire cinematografico, sempre ricoperto da sangue e vessato da dolorosissime torture, diventa oggetto di un percorso vendicativo dove la giustizia istituzionale è soppiantata dal senso morale, puramente soggettivo, che sceglie cosa fare nella data situazione, e in questa l’assassinio della fidanzata spinge il ragazzo poliziotto ad imporre il proprio tribunale della vendetta, che nei modi e nei termini non sfugge poi troppo al sadismo del mostro che va combattendo.
Ed al di là delle varie citazioni/riferimenti interni al film, è il rapporto fra il cacciatore e la preda costituito da un progressivo switching role (notare la simmetria della prima foto) a dare sostanza alla pellicola. Citando più o meno direttamente Nietzsche si evince pian piano l’intercambiabilità delle parti che assottiglia molto il confine tra i buoni e i cattivi; per inciso, durante la visione la mia empatia è spesso ricaduta a favore del killer piuttosto che al fidanzato giustiziere, una sensazione personale che gioca a favore del regista (e di chi ha scritto la sceneggiatura) il quale destabilizzando i criteri di parteggiamento disorienta lo spettatore fino alla fine dove c’è da chiedersi se il demonio abbia le fattezze di un ragazzo ben pettinato (mai quanto spietato!) o quelle di uno scapestrato (mai quanto dissennato!) signore di mezz’età, e la risposta rimane sospesa, anche se quella risata sorda nel finale ha un che di sinistramente diabolico.
Il contorno a questa magmatica “relazione” è, neanche a dirlo, esplosivo. Lo sguardo di Kim si fa piroettante, sontuoso, nervoso, regala sequenze memorabili in tutti gli scontri fisici (quello all’interno del taxi è strepitoso) nei quali spiccano istantanee di violenza inaudita, a tal proposito la perforazione del tendine vista in dettaglio vince già il premio come momento più raccapricciante dell’anno.
Ovviamente è una storia che si mette al servizio del cinema di Kim e alla sua spettacolarizzazione poiché guardando alla vicenda con una prospettiva realistica qualche tassello del mosaico si sgretola (una cimice dentro allo stomaco che permette di sentire via etere i discorsi all’esterno? Come ha fatto il killer a sapere dove abitava precisamente la famiglia della ragazza?), tuttavia restano, appunto, sottolineature di carattere razionale e quindi superlue in un film del genere.
… qualcosa ha tremato dentro me quindi, è stata la nostalgia di un déjà vu con la sua sensazione di aver già vissuto quel momento, e forse I Saw the Devil è proprio questo, un possente esercizio di evocazione, una dimostrazione di analessi cinefila.
Noi il diavolo lo avevamo già incontrato, ma rivederlo è stato davvero piacevole.
L’ultimo film di Kim Jee-woon è forse (vista la parabola discendente, a mio avviso discutibile, che alcuni critici attribuiscono al cinema sudcoreano) il canto del cigno di una realtà artistica spropositata, gigantesca, oramai già stori(c)a; nell’ultima decade la Corea del Sud ha impresso a forza di poesia e di violenza un solco profondo nella contemporaneità cinematografica, i coreani non hanno inventato il cinema ma di certo vi hanno donato nuove sfaccettature aventi come substrato una sintesi (sublime) mica da poco: quella tra l’Immagine in grado di investire con immane violenza e/o toccante lirismo, e Significato che giustifica la crudeltà e/o l’armonia sfuggendo al compiacimento.È per questo motivo che I Saw the Devil (2010), come puntualmente riportato dalla recensione di Alessandro Baratti (link), è un’opera che cita senza indugi il corollario filmico caratterizzante buona parte della settima arte in Corea del passato recente. Il canale dialogico è spalancato, almeno per ciò che il sottoscritto ha potuto vedere, soprattutto nei confronti del collega Park Chan-wook, poiché questa pellicola, oltre ad annoverare nel proprio cast il già citato (e sempre immenso) Choi, poggia le fondamenta su quel rancore umano, quel ri-sentimento tanto caro a Park: la vendetta.
Proprio il folle maniaco protagonista di questo film cuce un concreto legame con i due personaggi interpretati da Min-sik nell’imprescindibile Trilogia. Al pari di Dae-su in Oldboy (2003) e di Mr. Baek in Lady vendetta (2005), questo martire cinematografico, sempre ricoperto da sangue e vessato da dolorosissime torture, diventa oggetto di un percorso vendicativo dove la giustizia istituzionale è soppiantata dal senso morale, puramente soggettivo, che sceglie cosa fare nella data situazione, e in questa l’assassinio della fidanzata spinge il ragazzo poliziotto ad imporre il proprio tribunale della vendetta, che nei modi e nei termini non sfugge poi troppo al sadismo del mostro che va combattendo.
Ed al di là delle varie citazioni/riferimenti interni al film, è il rapporto fra il cacciatore e la preda costituito da un progressivo switching role (notare la simmetria della prima foto) a dare sostanza alla pellicola. Citando più o meno direttamente Nietzsche si evince pian piano l’intercambiabilità delle parti che assottiglia molto il confine tra i buoni e i cattivi; per inciso, durante la visione la mia empatia è spesso ricaduta a favore del killer piuttosto che al fidanzato giustiziere, una sensazione personale che gioca a favore del regista (e di chi ha scritto la sceneggiatura) il quale destabilizzando i criteri di parteggiamento disorienta lo spettatore fino alla fine dove c’è da chiedersi se il demonio abbia le fattezze di un ragazzo ben pettinato (mai quanto spietato!) o quelle di uno scapestrato (mai quanto dissennato!) signore di mezz’età, e la risposta rimane sospesa, anche se quella risata sorda nel finale ha un che di sinistramente diabolico.
Il contorno a questa magmatica “relazione” è, neanche a dirlo, esplosivo. Lo sguardo di Kim si fa piroettante, sontuoso, nervoso, regala sequenze memorabili in tutti gli scontri fisici (quello all’interno del taxi è strepitoso) nei quali spiccano istantanee di violenza inaudita, a tal proposito la perforazione del tendine vista in dettaglio vince già il premio come momento più raccapricciante dell’anno.
Ovviamente è una storia che si mette al servizio del cinema di Kim e alla sua spettacolarizzazione poiché guardando alla vicenda con una prospettiva realistica qualche tassello del mosaico si sgretola (una cimice dentro allo stomaco che permette di sentire via etere i discorsi all’esterno? Come ha fatto il killer a sapere dove abitava precisamente la famiglia della ragazza?), tuttavia restano, appunto, sottolineature di carattere razionale e quindi superlue in un film del genere.
… qualcosa ha tremato dentro me quindi, è stata la nostalgia di un déjà vu con la sua sensazione di aver già vissuto quel momento, e forse I Saw the Devil è proprio questo, un possente esercizio di evocazione, una dimostrazione di analessi cinefila.
Noi il diavolo lo avevamo già incontrato, ma rivederlo è stato davvero piacevole.
concordo sul cinema coreano..questo me lo cerco subito..ciao
RispondiEliminamamma mia, dev'essere un filmone!
RispondiEliminanon l'ho ancora visto, ma adesso corro a recuperare. soprattutto sono curioso di vedere come si possa collocare il film nel panorama coreano odierno, visto- e come sottolinei giustamente tu- che ultimamente sta perdendo un po' di colpi. inutile dire che ho grandi aspettative (anche considerando l'ultimo Park), speriamo che non le disattenda.
Ollallà, questo me lo vedrò!
RispondiEliminaSu IMDb ha una valutazione quasi stratosferica: 8.0/10 per 1409 votanti. Su Gli Spietati si è beccato una riga di 8 e di 9 che non vedevo da parecchio tempo. Io diciamo che non sono così fottutamente entusiasta, lo sono un po' meno, ma resta un film fuori dall'ordinario.
RispondiEliminaQualche giorno fa ho visto un altro film sudcoreano, si chiama Poetry, vi obbligo a vederlo.
io dopo Oasis e Peppermint Candy, Lee Chang-dong lo prendo con le pinze. neanche leggendo commenti vari mi aveva interessato troppo. ma se lo dici, e soprattutto se mi obblighi, allora mi fido :D
RispondiEliminaNon li ho visti i suoi film precedenti! Questo ti posso dire che tratta una storia molto toccante, poetica (come da titolo) e triste. Non un capolavoro imprescindibile ma un buon film a mio parere.
RispondiEliminaaggiudicato :D
RispondiEliminai film precedenti sono a loro modo belli, ma non mi hanno pienamente convinto. forse rivedendoli cambierò idea- e magari questa è anche un'occasione buona per farlo.
L'ho visto di recente, un bel film, ma niente di trascendentale, a mio avviso. Notevole il protagonista "negativo", però.
RispondiEliminaIl punto è proprio questo però: chi sono i buoni? chi sono i cattivi? :)
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