La prima cosa (tremendamente banale) su cui mi viene da elucubrare è l’originalità di Symbol (2009). Penso e ripenso alla sua struttura bipartita: lo zenit è il Messico afoso e impolverato dove un wrestler si prepara ad un incontro di lotta, il nadir è la stanza conica e bianca dove è misteriosamente intrappolato un uomo dal pigiama improbabile.
Il film alterna i due ambienti che non hanno un legame logico, il quale si spera che si palesi nel finale per compattare questa duplice anatomia. E ce la fa l’opera ad avere un senso attraverso il suo nonsense, a legittimare la presenza del Messico affiancata ad un non-ambiente e viceversa? Mmm, a mio avviso non del tutto, e cercherò di spiegarlo.
Ciò che cattura immediatamente sono le peripezie dell’uomo col pigiama all’interno della sua prigione che per brevi tratti mi ha ricordato quella della mitica serie televisiva Il prigioniero.
L’ingegnosità del regista Hitoshi Matsumoto, che si avvale di un massiccio uso di computer grafica, è straripante per un continuo avvicendarsi di trovate esilaranti (fa sorridere di come il protagonista, lo stesso Matsumoto, si danni l’anima nel cercare una via d’usicta), geniali (i pensieri dell’uomo traslati in fumetto) e dissacranti (gli interruttori non sono altro che pisellini con tanto di scroto appartenenti a innumerevoli cherubini). Tutto supportato da un notevole sforzo tecnico che con sapienti movimenti di camera riesce a spaziare in quello che probabilmente era un semplice tappeto bianco circondato da pannelli green screen.
Dunque l’attenzione si concentra tutta qui. Tuttavia si vorrebbe giungere ad una spiegazione plausibile della presenza di quel lottatore messicano, sebbene comunque visto il tenore della pellicola una delucidazione coerente non era lecito attendersela. Allora permane una sana curiosità di capire in che modo il regista voglia e riesca a congiungere le due vedute così incredibilmente lontane. E quando ciò viene illustrato si rimane con un po’ di amaro in bocca. Lo scioglimento non è all’altezza delle premesse, ed anche il finale in cui paradossalmente si assiste ad una lunga, lunghissima a quanto pare, risalita (una ri-nascita forse?), Symbol invece “precipita” in un piccolo delirio di onnipotenza che riesce a giustificare tutto l’immane castello edificato da Matsumoto con il minimo sforzo possibile. Ma d’altronde credo sia questa la tesi del regista: una comica formazione (vi è difatti la suddivisione apprendimento pratica e futuro), corroborata dalle angeliche presenze, di un qualche dio che capisce pian piano di potere tutto, dall’allungare il collo di un wrestler, ad incendiare un concerto rock fino all’elezione di un presidente americano e alla detenzione degli elementi naturali. È una soluzione narrativa troppo semplice che potenzia il lato estetico ma al contempo sminuisce pesantemente quello del raccontato e della sua coerenza.
Peccato, resta comunque una visione che ha scampoli di divertimento diverso.
Il film alterna i due ambienti che non hanno un legame logico, il quale si spera che si palesi nel finale per compattare questa duplice anatomia. E ce la fa l’opera ad avere un senso attraverso il suo nonsense, a legittimare la presenza del Messico affiancata ad un non-ambiente e viceversa? Mmm, a mio avviso non del tutto, e cercherò di spiegarlo.
Ciò che cattura immediatamente sono le peripezie dell’uomo col pigiama all’interno della sua prigione che per brevi tratti mi ha ricordato quella della mitica serie televisiva Il prigioniero.
L’ingegnosità del regista Hitoshi Matsumoto, che si avvale di un massiccio uso di computer grafica, è straripante per un continuo avvicendarsi di trovate esilaranti (fa sorridere di come il protagonista, lo stesso Matsumoto, si danni l’anima nel cercare una via d’usicta), geniali (i pensieri dell’uomo traslati in fumetto) e dissacranti (gli interruttori non sono altro che pisellini con tanto di scroto appartenenti a innumerevoli cherubini). Tutto supportato da un notevole sforzo tecnico che con sapienti movimenti di camera riesce a spaziare in quello che probabilmente era un semplice tappeto bianco circondato da pannelli green screen.
Dunque l’attenzione si concentra tutta qui. Tuttavia si vorrebbe giungere ad una spiegazione plausibile della presenza di quel lottatore messicano, sebbene comunque visto il tenore della pellicola una delucidazione coerente non era lecito attendersela. Allora permane una sana curiosità di capire in che modo il regista voglia e riesca a congiungere le due vedute così incredibilmente lontane. E quando ciò viene illustrato si rimane con un po’ di amaro in bocca. Lo scioglimento non è all’altezza delle premesse, ed anche il finale in cui paradossalmente si assiste ad una lunga, lunghissima a quanto pare, risalita (una ri-nascita forse?), Symbol invece “precipita” in un piccolo delirio di onnipotenza che riesce a giustificare tutto l’immane castello edificato da Matsumoto con il minimo sforzo possibile. Ma d’altronde credo sia questa la tesi del regista: una comica formazione (vi è difatti la suddivisione apprendimento pratica e futuro), corroborata dalle angeliche presenze, di un qualche dio che capisce pian piano di potere tutto, dall’allungare il collo di un wrestler, ad incendiare un concerto rock fino all’elezione di un presidente americano e alla detenzione degli elementi naturali. È una soluzione narrativa troppo semplice che potenzia il lato estetico ma al contempo sminuisce pesantemente quello del raccontato e della sua coerenza.
Peccato, resta comunque una visione che ha scampoli di divertimento diverso.
questo non l'ho mai sentito, ma con gli interruttori-pisellini mi ha (quasi) conquistato :)
RispondiEliminap.s.:sembra proprio una visione da serata alcolica :D
Sicuramente :D, senza dubbio faresti colpo con la più gonfia del gruppo che non smetterebbe un minuto diridere di fronte a quella moltitudine di organi genitali!
RispondiEliminaFilm geniale ed esilarantissimo, al quale si perdona anche il finale alla "2001"! ^^
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