Spesso, quando si parla di un’opera prima, c’è la tendenza a ravvisare nel suddetto esordio, a volte a torto a volte no, gli stilemi che caratterizzeranno l’autore preso in esame. Vuoi per pigrizia, o per una pellicola come Fun Bar Karaoke (1997) che appare semplice (ma non semplicistica!), sarà quello che farò sinteticamente anche io. L’anima artistica di Ratanaruang è divisa in due tronconi, il primo, corrispondente a tutti i suoi lavori precedenti Last Life in the Universe (2003), è connotato da storie adagiate su uno scheletro gangsteristico nel quale si amalgamano piacevolmente comicità e dramma. Dopo il film del 2003 il registro cambia e Pen-Ek mette in moto un processo di complessificazione che rende il suo cinema molto più sospeso, disancorato dalla materialità delle storie precedenti per sondare con tocco metafisico le problematiche umane, e ne è d’esempio il (finora) punto più alto della sua filmografia: Ploy (2007).
Ecco che in questo film ritroviamo in forma embrionale i due assi portanti che hanno caratterizzato la visione di Ratanaruang. La vicenda del padre fannullone invischiato in un guaio più grosso di lui scatena una serie di dinamiche simili a quelle future, su tutte il legame fra un carnefice e una vittima (accadrà anche in Invisible Waves, 2006) giocato sul ribaltamento dei ruoli – lei intraprendente e lui timido come quasi tutte le figure maschili del regista thai –, e della purezza sentimentale – impressione del tutto personale ma riscontrabile, sempre a mio modo di vedere, anche in Love Song (2001) –.
Appaiata alla questione meramente crime, viene rappresentata in maniera seminale la tendenza di Pen-Ek a sconfinare nel sogno, o perlomeno di dare allo spazio onirico un ruolo di primo piano. I sogni della protagonista in cui rivede la madre deceduta fungono da piccole parentesi pregresse atte a gettare le fondamenta di un viaggio che solo recentemente ha trovato il suo punto di massima ampiezza (e conseguente rarefazione): Nymph (2009).
Che dire di altro, ah! Si riscontrano due bloopers non male; trattasi in entrambi i casi dell’asta a giraffa del microfono che sborda dall’inquadratura. La prima appare nel bagno del locale mentre la seconda sopra la testa della figlia nei minuti finali. Due sviste dilettantesche per un regista che in futuro si dimostrerà Autore vero.
Un grazie doveroso a Einzige senza il quale non avrei mai potuto vedere questo film.
Ecco che in questo film ritroviamo in forma embrionale i due assi portanti che hanno caratterizzato la visione di Ratanaruang. La vicenda del padre fannullone invischiato in un guaio più grosso di lui scatena una serie di dinamiche simili a quelle future, su tutte il legame fra un carnefice e una vittima (accadrà anche in Invisible Waves, 2006) giocato sul ribaltamento dei ruoli – lei intraprendente e lui timido come quasi tutte le figure maschili del regista thai –, e della purezza sentimentale – impressione del tutto personale ma riscontrabile, sempre a mio modo di vedere, anche in Love Song (2001) –.
Appaiata alla questione meramente crime, viene rappresentata in maniera seminale la tendenza di Pen-Ek a sconfinare nel sogno, o perlomeno di dare allo spazio onirico un ruolo di primo piano. I sogni della protagonista in cui rivede la madre deceduta fungono da piccole parentesi pregresse atte a gettare le fondamenta di un viaggio che solo recentemente ha trovato il suo punto di massima ampiezza (e conseguente rarefazione): Nymph (2009).
Che dire di altro, ah! Si riscontrano due bloopers non male; trattasi in entrambi i casi dell’asta a giraffa del microfono che sborda dall’inquadratura. La prima appare nel bagno del locale mentre la seconda sopra la testa della figlia nei minuti finali. Due sviste dilettantesche per un regista che in futuro si dimostrerà Autore vero.
Un grazie doveroso a Einzige senza il quale non avrei mai potuto vedere questo film.
un esordio sgangherato e un po' caciarone ma molto accattivante che però mi (anzi, ci) ha introdotto a uno dei migliori autori del panorama attuale.
RispondiEliminati ringrazio del ringraziamento ma, come si dice in queste occasioni e con falsa modestia, "non dovevi" :D
Più che altro è incredibile il salto di qualità da questo a 69!
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