Una descrizione (il massimo che sono riuscito).
Non è compito facile quello di scrivere qualcosa su un film come Chetyre (2004).
L’unico paragone possibile che mi viene da fare è quello con i lavori dell’ungherese György Pálfi, scoppiettanti esempi di cinema oltre, tracimanti e allo stesso tempo imperfetti, accorate manifestazioni di arte a volte al di là di ogni significato. Prendete questa matrice di fondo dunque, e unitela all’influenza della scuola russa (Tarkovskij è la fonte a cui abbeverarsi) che pervade ogni fotogramma di questo film.
A tal proposito è utile citare le parole del mio collega blogger J. Doinel (link) che nonostante siano collegate ad un’altra pellicola sovietica non travisano il senso di ciò che mi preme esprimere:
Non è compito facile quello di scrivere qualcosa su un film come Chetyre (2004).
L’unico paragone possibile che mi viene da fare è quello con i lavori dell’ungherese György Pálfi, scoppiettanti esempi di cinema oltre, tracimanti e allo stesso tempo imperfetti, accorate manifestazioni di arte a volte al di là di ogni significato. Prendete questa matrice di fondo dunque, e unitela all’influenza della scuola russa (Tarkovskij è la fonte a cui abbeverarsi) che pervade ogni fotogramma di questo film.
A tal proposito è utile citare le parole del mio collega blogger J. Doinel (link) che nonostante siano collegate ad un’altra pellicola sovietica non travisano il senso di ciò che mi preme esprimere:
Il cinema russo ha una poetica inconfondibile e che non tutti sanno cogliere. Spesso si viene spaventati dalla sua lentezza o addirittura dalla semplicità quotidiana di quello che racconta, tanto che i più scettici tendono a confondere questo aspetto con la banalità. Spesso chi ama questi film viene anche giudicato male, pensando davvero che chi si addentra a queste visioni lo fa solo per una maniacale ricercatezza di singolarità eruditiva. Il problema è che chi pensa ciò dovrebbe cominciare a smettere di guardare film, perché è proprio alla base di quelli che possono essere difetti che il cinema russo attraverso i silenzi, la dilatazione e la ripetizione riesce a cogliere le sfumature più profonde che ci avvicinano alla più intima e originaria essenza dell'umano.Ma a tale capacità di cogliere, o almeno di provare a farlo, il senso di questa strana cosa che chiamiamo vita senza enfatizzazioni, ostentazioni e facili sentimentalismi, il regista Ilya Khrzhanovskiy vi affianca un registro in bilico fra fantascienza e grottesco, rendendo così bipartita la forma dell’opera: da una parte abbiamo il substrato squisitamente russo, dall’altra persiste una condizione di inestricabilità che avvolge il film in un’enigmatica spirale.
Ma cosa racconta 4? Qual è il suo filo conduttore?
Beh, ad una fedele ricostruzione dei fatti posso dirvi che escluso un breve incipit di presentazione, la mezz’ora successiva è costituita da un dialogo a tre all’interno di un bar a sfondo nero nel quale due uomini e una donna di nome Marina discutono sui propri lavori. Salta fuori che Marina si occupa di pubblicità ed è lì lì per commercializzare un prodotto in grado di eliminare la stanchezza sul lavoro, mentre gli altri due sarebbero uno un funzionario del Presidente, e l’altro uno scienziato coinvolto in un segretissimo progetto di clonazione che non si pone l’obiettivo di duplicare, bensì di quadruplicare le persone.
In questo segmento la mdp è statica e tutto si gioca su una messa in serie che alterna i vari campi rendendo il bar simile a quel famoso quadro di Edward Hopper.
Abbandonato il locale la narrazione si concentra prevalentemente su Marina con qualche parentesi riservata agli altri due. Si intuisce che ciò che i tre si sono detti al bancone non corrisponde a verità: uno pare non essere uno scienziato ma un musicista ricercato dalla polizia, l’altro un semplice venditore di carne, e Marina una ragazza che si reca in un villaggio disperso per presenziare il funerale di una sorella morta.Da qui in poi la pellicola è profondamente russa (ed anche sottilmente inquietante) nelle sue ambientazioni – una specie di fattoria imbrattata dal fango abitata da vecchiacce strafatte di vodka –, ma non nello stile poiché le riprese si fanno concitate con un uso massiccio della camera a spalla. Qui la ragazza trova altre due sorelle praticamente identiche a lei con le quali soggiorna nelle baracche. Tra tavole imbandite che mi hanno ricordato quelle di Seven Invisible Men (2005), bambole di pezza senza più un creatore, e vecchie ubriache che mostrano le tette, le tre sorelle sembrano soffrire questa stramba comunità. Nell’excipit, infine, vengono reinseriti brevemente i due uomini del bar. Poi il canto di una donna anziana sancisce la conclusione.
Alcuni commenti in rete interpretano 4 attraverso una chiave socio-politica; la Russia del nostro tempo sarebbe un paese senza più certezze (non che noi siamo messi tanto meglio) dove “il davanti” è sempre una labile facciata che nasconde dietro qualcos’altro, e penso ad esempio al tizio che si mette a vendere della carne chiusa per più di vent’anni nella cella frigorifera.
Ogni atto ermeneutico è legittimo di fronte a questo lavoro pressoché indecifrabile. Chi scrive non ci ha nemmeno provato, ma ha voluto ugualmente parlarne perché i discorsi intorno a un film sono inesauribili al pari dell’amore che si ha nei confronti della settima arte, al quale 4 si iscrive comunque doverosamente, con la necessità di altri sguardi. I vostri.
Ogni atto ermeneutico è legittimo di fronte a questo lavoro pressoché indecifrabile. Chi scrive non ci ha nemmeno provato, ma ha voluto ugualmente parlarne perché i discorsi intorno a un film sono inesauribili al pari dell’amore che si ha nei confronti della settima arte, al quale 4 si iscrive comunque doverosamente, con la necessità di altri sguardi. I vostri.
decisamente intrigante!
RispondiEliminasegno :)
questo me lo segno! mitico
RispondiEliminanon lo conosco, da quello che scrivi sento un alito di Bela Tarr, nel senso di cinema altro, cinema da vedere, davvero difficile da raccontare.
RispondiEliminami incuriosisce:)
Cinema altro sicuramente. Però fare paragoni non è semplice, Tarr poi... mah! Non saprei dirti, come ho scritto può ricordare Pálfi e un altro ungherese di cui parlerò fra poco di nome Hajdu (straordinario), ma per il resto è tutto da vedere, e sarei proprio contento che lo faceste perché mai come in questo caso c'è bisogno di ulteriori opinioni.
RispondiEliminaoh... che onore essere citato.
RispondiEliminaComunque lo scavalco in lista... lo vedrò al più presto.
Scavalca scavalca :), i sub ita non esistono, bisogna cimentarsi per forza con l'inglese.
RispondiEliminanoooooo, farò uno sforzo.
RispondiEliminaNonostante la cessata attività del blogger, credo che rimanga un punto di riferimento per molti appasionati di cinema questo sito che mi ha regalato l'incipit per la visione di molti film, tra cui questo. Solo per scrupolo, segnalo due elementi fondamentali che rendono più comprensibile l'allegoria e cioè: il cane (figura ricorrente e decisiva), lo spazzaneve che accompagna costantemente la presenza del cane. Da vittima a carnefice, la neve e l'acqua, la fine dell'inverno e cio che ne rimane...
RispondiEliminaappassionati*
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