Con ogni probabilità Andrey Iskanov non è esattamente il tipo di fidanzato che le mamme vorrebbero per le proprie figlie. Nulla da dire su ciò che è, magari parliamo della persona più pacifica del pianeta, chi può dirlo!, ma se si guarda quel che fa, beh, qualche dubbio sulla sua bontà sorge spontaneo. Dire che Iskanov sia un regista horror è parecchio riduttivo perché quando pensiamo a tale categoria i nomi che ci vengono in mente appartengono ad una certa élite famosa al grande pubblico, invece questo autore naviga nelle oscurissime acque del cinema underground, talmente autoprodotto e autogestito da lasciare nei titoli di coda il proprio indirizzo e-mail in caso lo si volesse contattare. Certo, di registi del (e di questo) genere ce ne sono un sacco: Fred Vogel, Olaf Ittenbach, Andreas Schnaas, Jörg Buttgereit o Lucifer Valentine giusto per citare i più famosi nell’universo low-budget, ad ogni modo Iskanov stuzzicava a priori il mio palato per due motivi: primo perché nel 2008 ha girato un film-apocalisse della durata di 4 ore e 15 minuti dal titolo Philosophy of a Knife, e secondo perché a differenza dei colleghi sopraccitati la sua patria natale è fonte di grandissimo interesse.
Ovviamente c’è una distanza assiderale tra la cinematografia metafisico-esistenziale dei registi sovietici e quella proposta da Iskanov che per vigoria complessiva è paragonabile ad una prolungata scossa elettrica, tuttavia a film ultimato mi pare di aver trovato ciò che era lecito attendersi, ossia un tipo di cinema che poggia le fondamenta sulla violenza e che edifica il proprio credo in un susseguirsi di visioni psichedeliche totalmente fuori di testa e dall’ordinario. I punti di riferimento citati da IMDb sono due capisaldi: Eraserhead (1977) e Tetsuo (1988), evidentemente il paragone è difficile e non tanto per una questione di denaro perché penso che nemmeno Lynch e Tsukamoto navigassero in un mare d’oro al tempo degli esordi, piuttosto per una contestualizzazione temporale che vede Nails (2003) arrivare inevitabilmente dopo e decisamente tardi rispetto alle opere di cui sopra, perciò si può affermare che molto era già stato detto e l’essenza di questa pellicola assume connotati un po’ derivativi. Ma Iskanov riesce comunque ad evidenziarsi per un uso massiccio del comparto sonoro curato da lui stesso capace in alcuni frangenti di dare un’aura terribile e straniante alla storia. Se si trattasse di un film più “accessibile” andrebbe sottolineata l’invadenza che la musica ha nel contesto, ma trattandosi di un esordio e di una produzione (pe)n(s)ata per un circuito lontano dalla logica del tornaconto monetario la prendiamo così com’è al pari degli SFX (anch’essi creati dal regista) molto alla buona soprattutto nei piani in dettaglio della fronte trapanata sostituita da un bambolotto di cartapesta. Si annotano inoltre dei continui flash computerizzati dall’aspetto rozzo ma caleidoscopico, e l’importanza al colore trova concretizzazione nella deriva alienante del serial-killer che si accompagna ad una graduale esplosione di tonalità che riempiono lo schermo: si parte dal bianco e nero per giungere ad un arcobaleno schizofrenico grondante sangue e materia cerebrale.
L’opera successiva è Visions of Suffering (2006), che già dal titolo non promette niente di buono.
Ovviamente c’è una distanza assiderale tra la cinematografia metafisico-esistenziale dei registi sovietici e quella proposta da Iskanov che per vigoria complessiva è paragonabile ad una prolungata scossa elettrica, tuttavia a film ultimato mi pare di aver trovato ciò che era lecito attendersi, ossia un tipo di cinema che poggia le fondamenta sulla violenza e che edifica il proprio credo in un susseguirsi di visioni psichedeliche totalmente fuori di testa e dall’ordinario. I punti di riferimento citati da IMDb sono due capisaldi: Eraserhead (1977) e Tetsuo (1988), evidentemente il paragone è difficile e non tanto per una questione di denaro perché penso che nemmeno Lynch e Tsukamoto navigassero in un mare d’oro al tempo degli esordi, piuttosto per una contestualizzazione temporale che vede Nails (2003) arrivare inevitabilmente dopo e decisamente tardi rispetto alle opere di cui sopra, perciò si può affermare che molto era già stato detto e l’essenza di questa pellicola assume connotati un po’ derivativi. Ma Iskanov riesce comunque ad evidenziarsi per un uso massiccio del comparto sonoro curato da lui stesso capace in alcuni frangenti di dare un’aura terribile e straniante alla storia. Se si trattasse di un film più “accessibile” andrebbe sottolineata l’invadenza che la musica ha nel contesto, ma trattandosi di un esordio e di una produzione (pe)n(s)ata per un circuito lontano dalla logica del tornaconto monetario la prendiamo così com’è al pari degli SFX (anch’essi creati dal regista) molto alla buona soprattutto nei piani in dettaglio della fronte trapanata sostituita da un bambolotto di cartapesta. Si annotano inoltre dei continui flash computerizzati dall’aspetto rozzo ma caleidoscopico, e l’importanza al colore trova concretizzazione nella deriva alienante del serial-killer che si accompagna ad una graduale esplosione di tonalità che riempiono lo schermo: si parte dal bianco e nero per giungere ad un arcobaleno schizofrenico grondante sangue e materia cerebrale.
L’opera successiva è Visions of Suffering (2006), che già dal titolo non promette niente di buono.
A chi può interessare (penso a nessuno), ho già visto Philosophy of a Knife.
RispondiEliminaSe cercate l'Inferno, lì lo troverete.
a me interessa, tra tutte queste visioni apocalittiche navigo a mio agio! ;)
RispondiEliminaBeh, non è proprio una visione adatta ad una donzella ma lo spirito d'iniziativa è sempre ammirabile :)
RispondiElimina