lunedì 16 aprile 2018

Una luna chiamata Europa

Un prologo al fulmicotone ci catapulta nel fango del confine serbo-ungherese, non si può non riconoscere a Kornél Mundruczó il raggiungimento di una padronanza tecnica che poco o niente ha da invidiare al professionismo mainstream, il punto è però proprio questo: qual è il cinema che vogliamo vedere? Quello che attinge dall’immediatezza e dalle esposizioni botteghinesche? Siccome la risposta è scontata, le perplessità su Jupiter holdja (2017) si generano fin da subito (e forse ancora prima con lo sfacciato parallelo tra il satellite di Giove ed il Vecchio Continente) e, purtroppo, non c’è di che stupirsi, già nel precedente White God - Sinfonia per Hagen (2014) il regista ungherese aveva dimostrato quanto ci tenesse a perseguire certe logiche accomodanti, adesso, con il film proposto in concorso a Cannes ’17, l’involuzione verso un facile accesso, sebbene mascherato da piroette stilistiche e arzigogoli del plot, continua senza requie. Lo si ribadisce: Mundruczó sciorina spettacolo nemmeno ci trovassimo ad Hollywood tanto che, a ’sto punto, parrebbe naturale un suo approdo statunitense, e complimenti allora alla dinamicità degli inseguimenti (che siano a piedi o in automobile l’adrenalico risultato non cambia) e a questa idea, definirla “stramba” è troppo banale?, di proiettare Aryan nel cielo di Budapest. Ovviamente lo sfoggio di cotanto show filmico non solo non è sufficiente a rendere appagante la visione ma, proprio a causa di ciò, la visione stessa diventa urticante, che l’imperterrita farcitura di capriole e volteggi aerei stile Marvel movie me la si passi per arte è una cosa che fatico tremendamente a digerire, Una luna chiamata Europa volta le spalle alle possibili implicazioni politico-contemporanee in favore di una smaccata spettacolarizzazione, punto.

Ma vediamo dunque la ciccia del film che non sarà solo un susseguirsi di virtuosismi, vero? No, ma, è bene essere subito chiari, l’esibizione (/ismo) di Mundruczó inquina in modo irrimediabile i propositi dell’opera che sorgono da due questioni: migrazione e corruzione, ambedue localizzate nel territorio ungherese. Intenti lodevoli senonché è evidente il loro precipitare senza possibilità di salvezza dentro al buco nero-Aryan che no, mi spiace dirlo, non si innesta per niente nell’ordito tramico pensato dall’autore, e quando il ragazzo prende inevitabilmente la scena (suo malgrado) tutto il carrozzone edificato scivola nel macchiettistico. Il dottore ed il poliziotto, sorvolando sulle falle sceneggiaturiali che mi è parso essere di rilievo ma in un film dove un tipo vola non è che si può andare tanto per il sottile, sono tipiche pedine della rappresentazione intorpidite dalla scrittura, dalla necessità di ispessire moralmente un personaggio (il passato di Gabor) o di affibbiare uno status preciso ad un altro solo per costrizioni dicotomiche (un cattivo ci vuole perdindirindina). Tenendo poi conto degli insistenti tallonamenti e degli intrighi da spy-story consunta, il minestrone è bello che servito. A ciò si aggiungono infine delle eco religiose che mal si integrano con il resto della storia, come figura messianica Aryan non funziona anche perché la sua capacità, sebbene straordinaria, è limitata al librarsi in alto [1] e ciò sembra accodarsi al generale mood ostensivo piuttosto che ad una dote realmente funzionale alla narrazione [2].

Continuo a ritenere il minimalismo di Delta (2008) il migliore contributo che Kornél Mundruczó ha dato alla settima arte, di quello che in seguito è venuto, a prescindere da una implementazione delle competenze, è da obliare senza rimpianto alcuno.
_________________
[1] Ok è pure immortale ma lo scriviamo qui in piccolino a piè di pagina.

[2] Dimenticavo: Gabor che usa Aryan su diversi fronti come freak per ripianare i debiti non dà adito ad una serie di situazioni un po’ ridicole?

Nessun commento:

Posta un commento