Un prologo
al fulmicotone ci catapulta nel fango del confine serbo-ungherese,
non si può non riconoscere a Kornél Mundruczó il raggiungimento di
una padronanza tecnica che poco o niente ha da invidiare al
professionismo mainstream, il punto è però proprio questo: qual è
il cinema che vogliamo vedere? Quello che attinge dall’immediatezza
e dalle esposizioni botteghinesche? Siccome la risposta è scontata,
le perplessità su Jupiter holdja (2017) si generano fin da
subito (e forse ancora prima con lo sfacciato parallelo tra il
satellite di Giove ed il Vecchio Continente) e, purtroppo, non c’è
di che stupirsi, già nel precedente White God - Sinfonia per Hagen (2014) il regista
ungherese aveva dimostrato quanto ci tenesse a perseguire certe
logiche accomodanti, adesso, con il film proposto in concorso a Cannes
’17, l’involuzione verso un facile accesso, sebbene mascherato da
piroette stilistiche e arzigogoli del plot, continua senza requie. Lo
si ribadisce: Mundruczó sciorina spettacolo nemmeno ci trovassimo ad
Hollywood tanto che, a ’sto punto, parrebbe naturale un suo approdo
statunitense, e complimenti allora alla dinamicità degli
inseguimenti (che siano a piedi o in automobile l’adrenalico
risultato non cambia) e a questa idea, definirla “stramba” è
troppo banale?, di proiettare Aryan nel cielo di Budapest. Ovviamente
lo sfoggio di cotanto show filmico non solo non è sufficiente a
rendere appagante la visione ma, proprio a causa di ciò, la visione
stessa diventa urticante, che l’imperterrita farcitura di capriole e volteggi aerei stile Marvel movie me la si passi per arte
è una cosa che fatico tremendamente a digerire, Una luna chiamata Europa volta le spalle alle
possibili implicazioni politico-contemporanee in favore di una
smaccata spettacolarizzazione, punto.
Ma vediamo dunque la ciccia del film che non sarà solo un
susseguirsi di virtuosismi, vero? No, ma, è bene essere subito
chiari, l’esibizione (/ismo) di Mundruczó inquina in modo
irrimediabile i propositi dell’opera che sorgono da due
questioni: migrazione e corruzione, ambedue localizzate nel territorio ungherese. Intenti lodevoli senonché è evidente il loro
precipitare senza possibilità di salvezza dentro al buco nero-Aryan che
no, mi spiace dirlo, non si innesta per niente nell’ordito tramico
pensato dall’autore, e quando il ragazzo prende inevitabilmente
la scena (suo malgrado) tutto il carrozzone edificato scivola nel
macchiettistico. Il dottore ed il poliziotto, sorvolando sulle falle
sceneggiaturiali che mi è parso essere di rilievo ma in un film dove
un tipo vola non è che si può andare tanto per il sottile, sono
tipiche pedine della rappresentazione intorpidite dalla scrittura,
dalla necessità di ispessire moralmente un personaggio (il passato
di Gabor) o di affibbiare uno status preciso ad un altro solo per
costrizioni dicotomiche (un cattivo ci vuole perdindirindina).
Tenendo poi conto degli insistenti tallonamenti e degli intrighi da
spy-story consunta, il minestrone è bello che servito. A ciò si
aggiungono infine delle eco religiose che mal si integrano con il
resto della storia, come figura messianica Aryan non funziona anche
perché la sua capacità, sebbene straordinaria, è limitata al
librarsi in alto [1] e ciò sembra accodarsi al generale mood
ostensivo piuttosto che ad una dote realmente funzionale alla
narrazione [2].
Continuo
a ritenere il minimalismo di Delta
(2008) il migliore contributo che Kornél Mundruczó ha dato alla
settima arte, di quello che in seguito è venuto, a prescindere da
una implementazione delle competenze, è da obliare senza rimpianto
alcuno.
_________________
[1] Ok è pure immortale ma lo scriviamo qui in piccolino a piè di
pagina.
[2] Dimenticavo: Gabor che usa Aryan su diversi fronti come freak per
ripianare i debiti non dà adito ad una serie di situazioni un po’
ridicole?
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