Ecco, se
vogliamo far partire le argomentazioni del caso attraverso il metodo
comparativo viene facile pensare alla relazione sussistente tra
L’infinita fabbrica del Duomo (2015)
e Spira Mirabilis (2016),
non tanto perché il primo è l’estensione di una porzione del
secondo quanto perché il lavoro incentrato sulla Cattedrale lombarda
ci “serve” per esaltare le qualità del documentario successivo
dove infatti viene completamente abbandonato qualsiasi espediente didascalico (alla lettera: nella Fabbrica
comparivano ogni tanto delle didascalie esplicative non in linea con
il progetto), ne consegue immediatamente che lo spettatore è
obbligato a porsi domande di natura ontologica verso il film, verso
il cinema e verso se stessi, ammesso che si voglia rintracciare una
distinzione fra le tre istanze. Che cosa è dunque Spira
Mirabilis? Si può tergiversare
rispondendo che è, senza dubbio alcuno, l’apice della ricerca
artistica condotta dal duo D’Anolfi-Parenti, ma, come dire, è
troppo poco: qui ribolle una sostanza viva, sconosciuta, un qualcosa
che solo in poche delle innumerevoli visioni sostenute negli anni si
è potuto riscontrare, casi isolati ma accomunati da uno studio sulla
verità delle immagini, su quello che c’è dietro e su cosa ci si
può costruire intorno, per la coppia registica una storia quintuplice,
anche se probabilmente la fertilità narrativa è talmente ampia da
moltiplicare esponenzialmente i racconti proposti in un intreccio
avvolgente che si rifà alle basi della settima arte, nella
semplicità l’accostamento di immagini e suoni apre universi che
sono tesori e che con ammirata disinvoltura coniugano la cosmogonia
con il microscopico lavorio del quotidiano.
Forse
sarò un po’ limitato ma mi sembra che Chris Marker continui a
rimanere una luminosissima stella polare per i suoi colleghi di oggi,
e se vogliamo rimanere in tema di suggestioni Spira
Mirabilis ha
una non dissimile attitudine ad appaiare il viaggio planetario alle
connessioni intrafilmiche di The Human Surge
(2016) oltre che, sebbene solo in brevi porzioni, la capacità di
affabulare per mezzo di quel mix che oscilla tra cinema epistolare e
materiale d’archivio proprio di autori come Vincent
Dieutre, Yaël
André, Eric Pauwels e chissà quanti altri. Quindi sembra palese che
l’area di riferimento dal quale la regia ha attinto sia in linea
con i dettami di un assorbimento e correlata rielaborazione della
realtà, ci vuole un po’ di tempo per consapevolizzarsi del flusso
messo a disposizione, ma chi scrive assicura che una volta settati
sulle frequenze del film è difficile voltare lo sguardo: è una roba
profonda, non descrivibile a parole come per tutte le proiezioni
esperienziali, che si occupa di introdurci in una serie di cicli,
esatto: è la ciclicità che forgia l’opera, la sua osservazione da
punti di vista differenti e al contempo convergenti per merito di un
equilibrio prezioso, quell’integrazione delle sterminate diversità
in un movimento riunito e omogeneo che, quasi ogni volta, tocca fino
alla commozione.
Non
so se nell’insieme del “ciclo” si possa davvero inserire
qualsiasi elemento presente in Spira
Mirabilis, dall’abbraccio
interpretativo pare che alcune entità sfuggano, non importa: nel
complesso processo ci viene recapitata un’idea di ripetitività
cava e feconda, generatrice di riflessioni filosofiche e forse
perfino politiche che sfiorano con punte di delicatezza il nostro
vivere, e lo fanno pur non parlando direttamente né a noi e né di
noi, prendiamo la Turritopsis nutricula (per puro caso ne avevo
parlato qua, e, senza voler essere presuntuoso, mi sembra che in quel
pezzo vi sia qualche briciola delle intenzioni di D’A&P) e
raffrontiamola alle parole dell’indiano nel finale, all’infinito
posto al fianco della finitezza umana, alla concezione di una
possibile e perpetua rigenerazione che oltrepassa i fermi valori di
vita/morte e di memoria (collettiva)/ricordo (singolo). La famosa
citazione della legge di Lavoisier
continua ad essere uno smisurato recipiente di significati.
Infine merita di essere citata La sommità: dopo aver assistito al
lungo iter realizzativo dello hang, una prassi meticolosa e segnata
da precisi step, se vogliamo perfino noiosa da vedere, d’improvviso
osserviamo la conclusione del suo percorso (la musica) e l’inizio
di un altro (l’esistenza dei minuscoli neonati nelle incubatrici),
un contatto tra gli anelli di una catena interminabile che lascia
delle tracce indelebili negli occhi e nel cuore.
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