Racconto per immagini e
immagini che contengono racconti senza tempo perché quando è il
tempo ad allungarsi nei secoli esso pare infinito come giustamente ci
ricorda il nodoso olmo dell’apertura o come ci illumina l’idea
più bella e poetica che D’Anolfi e Parenti forniscono, quella
dell’eterna metamorfosi delle conchiglie che si trasformano in
marmo, L’infinita fabbrica del Duomo (2015) si concentra su
questa onda processuale che non sembra avere un termine perché
inizia con e nella natura (ci vogliono millenni affinché
l’evoluzione marmorea si compia) e prosegue attraverso l’uomo che
costruisce, lavora e abbellisce la materia in un lasso temporale
iniziato nel 1387 e dotato di una prospettiva pressoché perenne. La
parola “lavoro”, a mio modo di vedere, è un lemma decisivo per
avvicinarsi alla comprensione del documentario perché il concetto di
un perpetuo lavorio sorregge l’intera visione, e se ci pensiamo un
attimo è anche un fatto curioso poiché in uno sguardo filosofico
finanche lirico che la coppia registica propone, ciò che più rimane
è la concretezza delle azioni e dei dati storici, sicché il
soffermarsi sulla sterminata quantità di esseri umani che hanno
partecipato e che tutt’ora
stanno partecipando all’edificazione della cattedrale con attività di recupero e manutenzione, appaia
la cifra umana della fatica che intercorre tra la vita e la morte
alla tenacia ciclicità della natura, e il flusso che ne fuoriesce è
una grandezza non misurabile, è il respiro di ere che si susseguono
nell’arco smisurato della Storia.
C’è un filo che si sta
ispessendo di volta in volta per Massimo D’Anolfi e Martina
Parenti, un link che dona loro, per quanto vale, lo status di autori
e che collega Il castello (2011), l’eccellente
Materia oscura (2013), L’infinita fabbrica del Duomo e
probabilmente anche il successivo Spira Mirabilis (2016) che
si preannuncia come un importante punto di arrivo, e tale coesione
emerge dall’accomunante capacità di fare del cinema
documentaristico uno spazio narrativo svincolato dai paletti della
canonicità, e per rimanere al film sotto esame ci sono davvero
miriadi di racconti all’interno, si tratta di storie “mute”
scalfite nelle statue mutilate, archiviate negli antichi libroni
contabili, modellate dalle recenti tecniche di restauro, accolte
nella sacralità della routine giornaliera, tutte cellule di un unico
organismo complesso che non potrà mai essere compreso, perché se
come dicevano gli antichi Dio è una sfera infinita il cui centro è
dappertutto e la circonferenza da nessuna parte, un cinema del genere
può essere la finestra che si affaccia sull’immenso, saremo sempre
dei pusillanimi, ma il panorama è notevole.
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