Non ci sono certezze in
Zamri, umri, voskresni! (nemmeno la sua data di uscita, su
IMDb è il 1990 per altri siti il 1989), un’opera giurassica eppure
di giusto trent’anni fa che fu presentata a Cannes dove vinse la
Caméra d’Or, il riconoscimento assegnato ai migliori debutti
(ma sempre IMDb ci fa notare che prima di questo film ce ne sarebbero
altri due girati nel ’77 e nell’’81), e firmata da Vitalij Kanevskij, un regista russo piuttosto sconosciuto (ma un po’ di luce
è stata fatta in un Festival torinese di qualche anno fa che gli
dedicò una retrospettiva) la cui carriera ruota principalmente
attorno a due opere strettamente collegate, Sta’ fermo, muori e
resuscita e Una vita indipendente (1992). Per la pellicola
sotto esame la storia si muove in una zona della Siberia infangata e
innevata, divisa, quindi, tra la sporcizia degli adulti (ubriaconi,
storpi, prigionieri giapponesi, soldati, operai delle miniere) e il
candore di un’amicizia tra Galia (lei diventerà un’attrice vera
recitando, ad esempio, nel mitico Of Freaks and Men
[1998] e in Amour
[2012]) e Valerka (lui invece diventerà un delinquente finendo
dietro le sbarre, così come testimonia un documentario del 2010 che
rappresenta, ad oggi, l’ultimo titolo di Kanevskij). Il
rapporto tra i due bimbi, che in realtà, vivendo in un contesto del
genere, sono due Piccoli Uomini, è l’unica luce della vicenda, e,
quindi, a ripensarci, una certezza c’è, anche se traumaticamente
cancellata nel finale.
Zamri, umri,
voskresni! rientra in una categoria di film sovietici su cui è
complicato esprimere un giudizio oggettivo perché è proprio davanti
agli occhi di come molto di quanto esposto sia raffazzonato se non
improvvisato e che la non grande esperienza di Kanevskij si ripercuote
in una professionalità che non è esattamente su livelli altissimi,
eppure da qui dentro si propaga un fascino potente, una veracità che
investe e stordisce, la presa di coscienza che ciò a cui assistiamo
proviene da un mondo estremo da cui è impossibile distogliere lo
sguardo. Perché? Perché la cinematografia russa del passato (ma
anche quella più recente: Aristakisian!) sa creare dei ponti
magnetici con lo spettatore? Le motivazioni si possono ricondurre ad
un’attrazione che, almeno per chi scrive, è fatale: la seduzione
del degrado, materiale e umano, il disfacimento civile, i deboli ma
tenaci segnali di chi lotta e resiste, tutti ingredienti che
puntualmente possiamo ritrovare in Sta’ fermo, muori e
resuscita, la cui struttura, ad essere onesti, è davvero molto
episodica e non contempla uno sviluppo arioso della narrazione, si
procede a rimbalzi tra una marachella di Valerka e l’altra in un
singhiozzio dalla portata inarrestabilmente disumanizzante, ma non è
un processo né un meccanismo di cause ed effetto, le cose accadono
in una porzione geografica dimenticata da qualunque dio e non ci si
può fare niente, capita allora che un bimbetto venga assoldato da
una banda di criminali con modalità sbrigative e infondate su cui
però non mi sento di apporre alcun dubbio, e capita, soprattutto,
che si possa venire uccisi senza un perché, e qui Kanevskij è
intelligente nel lasciare il dramma fuori campo.
L’estemporaneità
esistenziale, la fragilità della vita che laggiù non è legata a
niente (forse nemmeno ai rapporti consanguinei), il tirare a campare
tra ettolitri di vodka e i vapori del carbone, surclassano l’assenza
di una scrittura oculata, gli sbilanciamenti e le accelerate del
racconto sono mitigate da scomode oasi che non si scorderanno
agilmente, primi piani perforanti come quello del matto che impasta
la farina nel fango o quello di Valerka sul cui viso si riflettono i
baluginii di un qualcosa che brucia e che nell’annesso controcampo
ci mostra tutto l’orrore possibile, fino alla catarsi della mamma
di Galia, una detonazione di follia e dolore che è la grondaia di
tutto il dolore e di tutta la follia di un intero popolo.
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