martedì 13 marzo 2018

Shinjuku Swan II

Nell’ormai famoso sestetto del 2015 Shinjuku Swan risultava essere, in una gara a chi faceva davvero peggio, il film più brutto del lotto in quanto al suo interno iniziava a maturare un’evidente spersonalizzazione registica, a tratti non vi era più alcuna peculiarità che potesse legittimare la paternità di Sono. Al tempo sottolineavo di come la constatazione ultima e rattristante fosse che per buona parte della proiezione non sembrava nemmeno di avere più a che fare con un’opera firmata dal giapponese. È automatico che da premesse del genere non poteva proprio uscire un prodotto dignitoso, anzi se col primo capitolo quel processo di disidentificazione iniziava a svilupparsi e a prevalere sul girato, con Shinjuku suwan II (2017) si arriva allo stadio conclusivo: non c’è la benché minima traccia del Sono che fu (nella versione rinvenuta dal sottoscritto è mancante anche la tipica scritta d’apertura “A Sono Sion film”, e forse non è una coincidenza...), ergo: il film è letteralmente invedibile. A causa dell’estenuante lunghezza (sfioriamo ingiustificatamente le due ore e un quarto) che ha annientato il desiderio di mettermi alla ricerca di qualunque informazione extra, mi limito a supporre che la seconda trasposizione del manga ideato da Ken Wakui sia stata pensata essenzialmente per soddisfare l’interesse dei fan nipponici piuttosto che quello degli occidentali. Ma al di là del target di mercato, se proviamo ad analizzare la struttura narrativa di Shinjuku Swan II subito ci si rende conto della pochezza del tutto: ancora e per l’ennesima volta siamo qui a riportare la disputa criminale tra bande di pseudo-delinquenti caricaturate in un eccesso che, spiace dirlo Sion, non funziona proprio, anzi: irrita, ma nel profondo, tipo che sono insopportabili sia i buoni che i cattivi, ammesso che vogliate trovarvi una differenza dato che sembrano tutti dei grandi imbecilli.

Lo snodarsi degli eventi non ha appeal, è farraginoso, noioso e schematico, la pletora di inutili personaggini che compaiono sullo schermo fa sempre riferimento ad un boss superiore in una piramide di potere fumettosa e ridicola. Non ho vergogna ad ammettere che parecchi passaggi mi sono sfuggiti, un po’ perché al momento della visione (primi di dicembre del 2017) gli unici sottotitoli inglesi disponibili erano di pessima fattura, e un po’ tanto perché la dozzinalità dell’intreccio risulta essere distraente oltremisura, se poi rispetto al predecessore vengono anche diminuite le baruffe tra le gang limitandosi ad inscenare qualche scazzottata per nulla memorabile (appena appena salvabile quella in cui cadono i cartelloni pubblicitari), il risultato è lo srotolamento di intrighi soporiferi su come riuscire a reclutare più ragazze della cricca opposta unito alle varie ed eventuali che gravitano nell’ambiente malavitoso. Inutile ribadire che non vi è nessun approfondimento né un tentativo di dare spessore (comunque, almeno in teoria, si racconta di prostituzione qui), è solo carta velina adagiata sul modello iper-abusato (anche da Sono stesso) degli yakuza-movie, un insulto per chi ha a cuore le sorti di quella cosa magnifica che si chiama cinema. Ad ogni modo sono piuttosto sicuro di aver definitivamente compreso Sono, quando verso il 2011 aveva fatto irruzione in Europa (il Festival di Torino gli dedicò anche un’esaustiva retrospettiva) ci eravamo meravigliati di quanto vitali fossero i suoi lavori, questo perché, semplicemente, avevamo visto i migliori, poi spulciando la filmografia sono venuti a galla esemplari a dir poco biasimevoli (due titoli a caso: Kikyû kurabu, sonogo [2006] e Be Sure to Share [2009]), e ora che è diventato produttivamente inarrestabile emerge con forza la tendenza di assoggettarsi ad una commercialità che non può che essere lontana dai miei desiderata, tuttavia non ritengo che Sono abbia completamente prosciugato la vena artistica, The Whispering Star (2015) e Antiporno (2016) suggeriscono il contrario, bisogna piuttosto accettare la prolifica politica intrapresa ed essere consci del fatto che fra tante brutture qualcosa di dignitoso a volte spunta.

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