Un’opera come Un
perro llamado Dolor (2001) mi coglie oltremodo impreparato perché
io di pittura e dei suoi interpreti ne so praticamente zero, e non solo fatico a
comprendere l’importanza dei supposti artisti e l’influenza all’interno delle
cornici storiche, ma, aspetto ancor più grave, ignoro buona parte
dei quadri da loro firmati. È un discorso che estendo all’intero
universo pittorico, dai graffiti rupestri all’arte contemporanea,
per cui, davvero, di fronte allo sforzo di Luis Eduardo Aute dovrei
tacere perché il cantautore e all’occorrenza disegnatore spagnolo
(ma nato a Manila!) struttura la sua creatura attraverso sette
ritratti, sette bozzetti, di Grandi con la g maiuscola come Goya, Picasso, Dalì
e Frida Kahlo che poi interseca in un procedimento completamente
irrazionale con personaggi del calibro di Napoleone, Stalin, Groucho
Marx e Buñuel. In più ricrea ed esacerba per mezzo di una
lievitante surrealtà il rapporto tra creatore e creato in modo che,
ad esempio, La maja desnuda possa prendere vita per andare
incontro alla morte, ed ogni autore è calato all’interno di
situazioni similari (situazioni per nulla chiare se non si conoscono
gli assunti e perciò davvero difficili da comprendere) che
annullano il divario con la tela, le dimensioni si confondono,
l’unico appiglio di continuità sembra essere l’onnipresente cane
che, sotto svariate spoglie, si ripresenta in ognuno dei sette
segmenti come una sentinella che vigila sull’imprevedibilità del
processo creativo.
L’impressione globale è
quella che vede Un perro llamado Dolor come un film-mausoleo
dove Aute ha raccolto i propri feticci, le stelle polari seguite nel
corso della carriera, gli idoli venerati, e ciò è riscontrabile
dall’intervista che lasciò in occasione di una visita italiana a
Sanremo (link). Quindi oggetto personale, voluto fortemente, e su cui
il regista ha sputato anima e grafite avendo lavorato per cinque
anni su ogni singolo centimetro visibile. Tra la
possibile ignoranza verso l’argomento e un correlato apprezzamento
si staglia lo scoglio più difficile da sormontare perché Un perro,
diciamocelo, è un film in cui si diffonde una noia letale fin dai
primi minuti; non uso mai il termine “noia” perché lo trovo di
una soggettività pazzesca e dunque insulso per parametrare un
giudizio di gradimento, ma qui mi sento realmente impossibilitato ad
esprimermi in maniera diversa: mi sono annoiato, tanto. Uno dei
motivi, o forse IL motivo principale riguarda la tecnica di
trasmissione adottata da Aute, già la scelta di seguire i dettami
del cinema muto non è che vesta di brio il tutto, in aggiunta poi la
componente stilistica risulta paurosamente demodé, vecchia e
pachidermica, dove le dissolvenze che dovrebbero fornire dinamicità
sono moviole, ganasce che immobilizzano e caricano di tedio la
visione. Se si vuole fare un confronto, le modalità di Aute
assomigliano a quelle di Aleksandr
Petrov, ma posti l’uno vicino all’altro il russo sembra
viaggiare a velocità doppia, figuratevi un po’!
Comunque grazie
all’infaticabile sottotitolista bowman e al suo lavoro di
emersione.
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